L'AFRICA IN TAXI BROUSSE
di
Federica Sorba
Andare
da soli in Africa non è stato assolutamente difficile
come tutti ci avevano pronosticato, cercando di spaventarci
in ogni modo possibile; il difficile è stato solo
tornare. Ritornare alla vita di tutti i giorni nelle nostre
città fredde e vuote
che fine hanno fatto i
bambini? E il calore avvolgente delle famiglie riunite nei
cortili, e gli odori dei mercati, e la magia sacra dei riti
quotidiani? Tutte queste cose ci sono entrate dentro, giorno
dopo giorno, insieme alla solidarietà della gente
e ai loro sorrisi fiduciosi. Alla fine anche noi, stupidi
toubab (bianchi), ci sentivamo in perfetta sintonia con
quel mondo, come se non ne potesse esistere uno diverso,
come se niente di male potesse succederci, là
Siamo
partiti il 1° febbraio da Nizza, destinazione Dakar.
Non avevamo programmi, né indirizzi, né contatti,
solo una vecchia guida Lonely Planet, due zaini che non
pesavano insieme più di 13 kg
e due mesi e mezzo
davanti a noi. Non avevamo idea di quello che ci aspettava
in Senegal, né tanto meno in Mali o in Burkina Faso
erano
stati i racconti degli immigrati a convincerci a partire,
e quello che dellAfrica si può immaginare dopo
aver vissuto per 3 anni nel diciottesimo, a Parigi
Appena
scesi dallaereo, alle 4 di notte, come una doccia
ghiacciata lAfrica ci ha tolto il respiro, ci ha lasciati
senza parole e senza fiato e abbiamo capito immediatamente
che niente di quello che avevamo imparato fino a quel giorno
ci sarebbe servito. Chi doveva venire a prenderci non cera,
e tutte le nostre certezze diventavano di colpo inutili
e assurde in quel mondo tanto diverso dal nostro, dove parole
semplicissime come vicino e lontano, pieno e vuoto, freddo
e caldo, non hanno alcun significato, dove neanche la luna
ha lo stesso aspetto, dove il tempo è un concetto
talmente inutile che nessuno ricorda neanche la propria
età. Ma un rude tassista ci ha portati a Yoff senza
troppe parole, senza neanche cercare di fregarci (e, vista
la situazione, avrebbe potuto fare di noi qualunque cosa!).
Siamo rimasti 4 giorni in quel tranquillo paesino di pescatori,
il tempo di imparare a muovere i primi incerti passi in
quel mondo. Lunghe passeggiate sulloceano, timide
escursioni nel caos di Dakar, giornate intere passate per
strada a spiare la vita dei silenziosi pescatori e delle
loro famiglie.
Appena
ottenuti i visti per il Mali e il Burkina siamo partiti
verso il sud del Senegal, la Casamance: verdissimo
paradiso tropicale di mangrovie e paludi; inferno di ribellioni
indipendentiste...
Abbiamo
passato una settimana sull'isoletta di Karabane,
in mezzo alle palme e ai resti di unepoca coloniale
ormai lontanissima, tra i coccodrilli, i delfini e gli strani
e spaventosi spiriti delle foreste... La sera, quando il
generatore era spento (o guasto), e loscurità
era rotta solo dalla luminescenza delle onde, e intorno
non cera nessuno e non si sentiva altro che il rumore
delloceano, la vecchia Lily, bellissima djola dalla
pelle chiara, cominciava a raccontare storie inquietanti
e fantastiche, di spiriti dispettosi o crudelissimi, di
terribili vendette e misteriose feste nel cuore della foresta
Dopo
una settimana trascorsa in quel posto, eravamo come rinati,
in perfetta sintonia con quel mondo e con tutti i suoi abitanti,
visibili e invisibili... abbiamo saputo solo molto più
tardi che poco lontano dalla nostra isola, in quegli stessi
giorni, 5 toubab erano stati uccisi per strada dai ribelli
indipendentisti
la Casamance, purtroppo, è anche
questo.
Ci
addentriamo verso il Mali, e cominciamo a capire
cosa significhi davvero spostarsi in Africa
è
incredibile, allinizio credevamo di impazzire ogni
volta che salivamo su uno di quei mezzi macilenti e vecchissimi,
pieni allinverosimile di ogni genere di passeggeri
e mercanzia, lanciati a velocità folli su strade
assolutamente impercorribili, in mano (per lo più)
a bambini o a pazzi furiosi. Quanto abbiamo sofferto, e
quante volte ho pregato San Cristoforo (protettore dei viaggiatori),
Allah e chiunque altro mi venisse in mente perché,
nonostante tutto, ci aiutassero ad arrivare illesi a destinazione!
Poi, piano piano, qualcosa è cambiato, forse la filosofia
dellInchAllah ci è entrata dentro, o,
semplicemente, abbiamo capito che era molto meglio così
e
ci siamo ritrovati a canticchiare su quegli stessi furgoni,
mentre la polvere e il caldo ci soffocavano e le vibrazioni
sembravano volerci spaccare il cervello...e abbiamo imparato
anche noi a coricarci sul bordo della strada e a dormire
aspettando che l'ennesimo guasto fosse riparato...a fidarci
ciecamente dei rimedi più insensati (una ditata di
pomata gialla sui copertoni prima di partire per non forare??),
e, soprattutto, a non fare più domande stupide su
tempi, distanze, condizioni stradali...
Il
treno è rimasto comunque il nostro mezzo di trasporto
preferito, è bellissimo lasciarsi cullare dal suo
ritmo dolcissimo, per giorni e giorni in mezzo alla brousse,
e lentamente (molto lentamente!) attraversare minuscoli
villaggi, e lasciarsi viziare dallinterminabile carosello
delle venditrici, che a ogni ora del giorno e della notte
vengono a offrirti davanti al finestrino le mercanzie più
impensabili
In treno siamo arrivati a Bamako,
capitale del Mali. Di qui abbiamo proseguito in compagnia
di un giovane mercante jugoslavo lungo il Niger, attraverso
paesini fatti solo di fango, con casette minuscole, vicoletti
intricati, orti verdissimi e donne che lavano i panni al
fiume, e bambini che insaponano i loro montoni per la festa
del Tabaski e grandi cortili pieni di vita e di odori. Djenné,
città di altri tempi che ha il colore della sabbia
e il fascino delle antiche fiabe, ci ha incantati e affascinati
con le sue imponenti moschee fatte di fango, i suoi favolosi
edifici signorili, le sue mille scuole arabe, dove i bambini
imparano il Corano in silenziosi giardini ombreggiati. E,
soprattutto, con il suo mercato: coloratissimo, rumoroso,
affollato di donne bellissime, eleganti e fiere come regine...
A
Mopti, circondati dalle acque del Niger, ci siamo
fermati un po di più per decidere quale strada
prendere...alla fine, dopo due giorni di estenuanti contrattazioni
sotto il sole cocente, siamo riusciti a spuntare un prezzo
più che ragionevole per la piroga (allincirca
un quarto di quello che ci avevano chiesto!), e ci siamo
imbarcati alla volta di Timbuctù. La nostra piroga
ci sembrava già talmente piena che, senza farci troppi
problemi, ci siamo sistemati ai nostri posti, speranzosi:
abbiamo dovuto aspettare più di 24 ore, fermi nel
porto senza poter scendere dalla piroga, prima che il carico
fosse davvero completo! Quando finalmente siamo partiti
eravamo talmente pesanti (almeno 100 persone e non so quante
tonnellate di riso) che ci incagliavamo in ogni banco di
sabbia, e allora gli uomini scendevano a spingere, le donne
venivano scaricate su piroghine di salvataggio, e si scaricava
riso finché non eravamo abbastanza leggeri per passare.
È stato un viaggio incredibile
la piroga scorreva
lentissima in mezzo a villaggetti minuscoli, laghi popolati
di ippopotami, intricati labirinti di canali, immense distese
desertiche. La sera ci fermavamo e dormivamo sulla riva
del fiume, tutti insieme. 5 giorni è durata la crociera(ci
avevano giurato che sarebbero stati al massimo 2), e per
5 giorni abbiamo mangiato tutti insieme, con le mani, solo
riso e pesce: a pranzo, cena e colazione!
Timbictù
è una città bellissima, magnetica, affascinante...ti
conquista poco per volta, ma non la puoi dimenticare...c'è
sabbia ovunque, il deserto entra in ogni casa, nei letti,
anche nel cibo che mangi. Abbiamo passato pomeriggi interi
ad ascoltare, affascinati, le antiche e leggendarie storie
di questa città, e gli incredibili racconti dei tuareg,
su una vita e un mondo che noi non riusciamo nemmeno a immaginare
Gli
americani dicono "Vedi Timbuctu e poi muori"...e
io per sedici ore, sul fuoristrada che doveva riportarci
nella civiltà, sono stata convinta che non fosse
solo un modo di dire...è stato il momento peggiore
di tutto il viaggio: aggrappati a una panchetta di legno
nel cassone di un pick up, sbattacchiati, frullati, sbalzati
da ogni parte, in mezzo al burro rancido che uno stupido
tuareg aveva rovesciato dappertutto, e alle spine degli
arbusti che, non si sa come, riuscivano a ferirti ovunque
tu fossi
lautista andava talmente veloce su quella
pista assolutamente impraticabile che avremmo potuto essere
tutti catapultati fuori, se solo ci fossimo distratti un
istante...e la strada non finiva mai...e i tuareg dormivano!!!
Ma come fanno a dormire?
Il
giorno dopo, quando l'incubo è finito, non potevo
stare in nessuna posizione per più di mezzo minuto
avevo lividi e lacerazioni assolutamente OVUNQUE...e una
ben radicata fobia di qualunque mezzo su ruote...
Siamo
ripartiti subito per i paesi Dogon...abbiamo affittato
un motorino, sfuggendo alle guide e agli acchiappaturisti,
per avventurarci da soli sulla
falaise, alla scoperta di quei meravigliosi paesini...naturalmente
abbiamo subito sbagliato strada e, senza volerlo, siamo
arrivati a Djguibombo, proprio in cima alla scarpata. Ci
ha accolti una strana animazione, e prima che potessimo
capire quello che stava succedendo ci siamo ritrovati nel
pieno della celebrazione di un funerale tradizionale: quel
giorno era morto uno dei vecchi del villaggio. Maschere
di ogni tipo attraversavano il villaggio, seguite con apprensione
ed eccitazione da tutta la gente del posto. Davanti alle
case più importanti si fermavano per eseguire danze
assurde, riti incomprensibili, canti misteriosi
uno
spettacolo assolutamente impressionante. Tutto era talmente
impregnato di sacralità che le maschere avevano perso
ogni traccia di umanità e nei loro costumi colorati
e voluminosi ci apparivano imponenti, sovrumane, spaventose.
La sera abbiamo dormito all'aperto, e per tutta la notte
i canti delle maschere hanno continuato a risuonare nel
silenzio assoluto della vallata, mentre un vecchio dogon
ci raccontava le antiche leggende e le usanze del posto.
Poi
il Burkina Faso, con il suo caldo logorante, la fuga
verso il sud, verso i tropici, verso l'acqua.
Ci
siamo innamorati di Bobo, una cittadina meravigliosa,
dove la vita è una specie di festa continua...la
domenica, se non ci sono feste nei dintorni, si va tutti
al fiume a fare il bagno, e ogni giorno della settimana,
a qualsiasi ora del giorno o della notte, tutte le strade
sono invase dalla musica...
A Pala, un minuscolo paesino non lontano da Bobo,
immerso tra le foreste di manghi, abbiamo assistito a una
folle e meravigliosa fete des masques: le maschere
ballavano e ballavano sotto il sole rovente, nei loro pesantissimi
costumi di rafia, non smettevano mai, e riuscivano a compiere
prodezze davvero miracolose, seguite dallo sguardo entusiasta
di migliaia e migliaia di persone, arrivate lì a
piedi chissà da dove
se avevamo ancora qualche
dubbio sui supposti poteri magici delle maschere, quel giorno
abbiamo dovuto ricrederci, in modo definitivo. (Per gli
scettici: abbiamo le prove fotografiche!)
Non
avremmo lasciato mai quei posti, ma ci aspettava la lunga
strada del ritorno: siamo ritornati in Mali e ci
siamo concessi un'ultima sosta a Kangaba, un villaggetto
minuscolo, vicino al fiume, dove le strade profumavano di
miele. Qui siamo stati accolti da una grande famiglia mandinka,
e senza fatica ci siamo adattati ai loro ritmi, alla loro
vita, al respiro di quel posto dove non c'era luce elettrica,
acqua in casa, né telefono
e neanche coca cola,
nè automobili, e pochissime bici, quasi nessun carretto...
era come tornare indietro nel tempo, rivivere tempi per
noi lontanissimi.
In
pochi giorni di spostamenti veloci ci siamo ritrovati nel
freddo di Dakar, ed è stato uno shock. Dakar,
che appena arrivati ci era sembrata talmente Africana adesso
è l'Europa, non ha niente a che vedere con il resto
dell'Africa...oltretutto fa davvero freddo, e il momento
del ritorno è talmente vicino. Passiamo gli ultimi
giorni tra le spiagge e i mercatini, con una cappa di nostalgia
addosso che ci impedisce di parlare, di pensare, di fare
cose...
Questo,
in breve, quello che abbiamo fatto... ma in mezzo ci sono
così tante cose che non si possono raccontare...
tutta la gente che abbiamo conosciuto, i loro sorrisi, i
loro volti, la pelle morbida dei bimbi che ho preso in braccio,
le mani che abbiamo stretto, le impressioni che abbiamo
provato...la sensazione di sentirsi a casa in un posto in
cui sei arrivato da poche ore; il senso di angoscia cupa
e impotente davanti a un ragazzino che ruba un pezzo di
pane, a una bimba con la pancia gonfia che gioca nell'immondizia,
a una ragazza che spala la merda davanti a casa per liberare
la fogna intasata; ma anche la felicità esuberante
dei bambini che giocano in strada con i loro giocattoli
fatti di niente, i sorrisi timidi delle donne, l'imperturbabile
profilo dei vecchi, persi nei loro pensieri...gli scherzi
infantili degli uomini, la loro curiosità ingenua
e insaziabile, i loro occhi sgranati davanti alle nostre
storie...tutto, nel bene e nel male, è così
intenso, così forte
così vivo
Unultima
cosa
tutti ci chiedono se non ci siamo sentiti immensamente
più fortunati di loro, degli africani. È una
domanda che ci sconvolge: mai, neanche per un attimo, abbiamo
pensato una cosa simile
a loro manca certamente tantissimo,
ma non vivrebbero mai nella fredda e sterile solitudine
delle nostre città, mai.
P.S.:
dopo due mesi e mezzo vissuti al ritmo degli africani, siamo
riusciti anche ad arrivare in aeroporto con un giorno di
ritardo! Ma dopo una mezzora da panico che ci ha invecchiati
di almeno dieci anni, abbiamo scoperto che anche laereo
era in ritardo, di 24 ore
e ci siamo imbarcati come
se niente fosse!
Cest ça lAfrique,
Allhamdoulillaï!