FRIENDSHIP HIGHWAY... FROM
KATHMANDU TO LHASA
di Giovanni
Mereghetti
Namastè…sono passati quasi vent’anni
dall’ultima volta in cui sono stato a Kathmandù;
avevo lasciato una città fatta di strade in terra
battuta, i risciò a motore sfrecciavano nei vicoli
di Thamel, i taxi erano rari e le biciclette erano le vere
padrone della città, ad ogni angolo di strada c’erano
piccoli templi dove i locali andavano a pregare i loro Dei,
il profumo dell’incenso era “l’odore”
della città, un profumo fatto di misticismo e magia
che non ti avrebbe più lasciato.
Ciò che mi appare, a prima vista,
non è più la Kathmandù fricchettona
di quel tempo, è un mondo diverso, a tratti sconosciuto.
Ci metto un po’ a rendermi conto di esserci già
stato, l’asfalto ha cementato tutta la zona attorno
a Durbar Square, solo i palazzi sono rimasti quelli di una
volta.
Ovunque sono nati ristorantini per turisti
e agenzie di trekking, i nepalesi si sono dati da fare,
in poco tempo hanno cambiato l’aspetto della loro
città e non solo, è cambiato anche il volto
della società, quella storica radicata nel passato.
Kathmandù dista solo 120 chilometri
dal confine cinese e la Friendship Highway, che inizia proprio
qui, è l’unica strada che collega il Tibet
ad un paese straniero.
Per raggiungere Kodari,
l’ultima città nepalese prima del confine cinese,
bisogna percorrere la strada che si snoda, prima nella valle
di Kathmandù, poi sui pendii delle montagne himalayane.
Gli ottomila svettano dietro le alture più basse,
ad ogni curva si presentano ai nostri occhi incuriositi
gli spettacoli che offre la natura in queste zone.
Per
percorrere questo breve tratto della Friendship ci vogliono
più di sei ore, i posti di controllo dei militari
sono numerosi, spesso le frane invadono la sede stradale
e la tortuosità del percorso rallenta i mezzi fuoristrada
che arrancano sulle strette carreggiate con pendenze da
capogiro.
Kodari, la città di frontiera, è
un agglomerato di case ubicate in una stretta valle a quasi
duemila metri di altitudine, ci sono alcuni negozietti di
spezie, altri di frutta e verdura e una sola locanda dove
i turisti diretti in Tibet passano la notte.
Le formalità doganali in uscita dal
Nepal sono veloci, solo un timbro sul passaporto, nessuno
controlla i bagagli. Subito dopo la dogana si deve percorrere
un breve tratto a piedi, si attraversa il Ponte dell’Amicizia
e finalmente si arriva in Cina.
Prima di ritirare i moduli per la dichiarazione
doganale bisogna sottoporsi alla misurazione della febbre,
sembra una cosa d’altri tempi ma è così,
un funzionario medico munito di termometro ultrarapido a
forma di pistola controlla la salute di tutti i viaggiatori.
Fortunatamente sono in ottima forma e i moduli
mi vengono consegnati con un accenno di sorriso di benvenuto.
Questo è solo il primo dei controlli, si riparte
percorrendo un tratto di strada in salita, poi ci si ferma
alla dogana, quella vera. I militari sono in uniforme verde
con strisce rosse, il cappello è quello classico
a visiera di tutti i soldati cinesi, sono impeccabili, quasi
eleganti. Anche se i controlli sono minuziosi si perde solamente
mezz’oretta, poi si passa, siamo in Tibet.
A Zanghmu, la prima cittadina cinese, è
quasi buio e anche se gli alberghi del posto non offrono
nulla di buono è bene fermarsi.
Si riparte la mattina successiva, dopo i primi tornanti
l’altitudine inizia a farsi sentire, in poche ore
si arriva a quota 3.500 metri, l’aria è sempre
più rarefatta e anche se lo spettacolo che appare
ai nostri sguardi diventa sempre più affascinante,
i nostri polmoni faticano a pompare il poco ossigeno che
riescono a recuperare.
Ancora qualche chilometro e la strada smette
improvvisamente di inerpicarsi sui pendii della montagna,
inizia un falsopiano infinito, la lancetta dell’altimetro
continua a salire, all’orizzonte le cime innevate
fanno da contorno, ma la meta sembra irraggiungibile, lontana.
Prima di arrivare a Nyalam si devono superare due passi
oltre i 4.500 metri, ai bordi della carreggiata c’è
la neve, il cielo è sempre più vicino.
Si arriva al piccolo posto di polizia di
Nyalam che è quasi mezzogiorno,
un breve controllo ai passaporti e si prosegue subito in
cerca di qualche ristorante per il pranzo. Troviamo un localino
dove cucinano i “momo”, una specie di ravioloni
ripieni di carne o di verdure: bolliti non sono male, se
poi ci metti un po’ soia diventano una delizia.
La
sosta è breve, entro sera bisognerà raggiungere
Old Tingri, l’unico posto in cui
si può pernottare, poi per centinaia di chilometri
non ci sarà più nulla, solo grandi distese
disabitate e montagne.
Old Tingri è solo un piccolo villaggio.
Una fila di case basse, un distributore di benzina, una
guest house e una strada, la Friendship Highway, nient’altro.
La strada è la vera casa di tutti,
i bambini giocano con palloni fatti di stracci, i più
grandicelli e le donne accudiscono il bestiame, i vecchi
passeggiano ruotando il mulino di preghiera. Ovunque si
respira un’aria di pace e sacralità, mentre,
all’orizzonte, le montagne si illuminano dietro l’ultimo
raggio di luce.
Da queste parti il tempo non è scandito
dall’orologio, appena sorge il sole ci si mette in
movimento, quando tramonta la vita si ferma. E’ così
anche per me, mi adeguo e seguo il ritmo del giorno e della
notte. Oggi sarà una giornata intensa, difficile,
prossima meta: Rongbok, il campo base dell’Everest.
La pista sale lentamente verso sud, piove
e i fiumi sono in piena, non è facile trovare i passaggi
per guadare i corsi d’acqua, il viaggio si fa sempre
più difficile…
Ci si muove su una vecchia Toyota cercando
di non perdere mai il riferimento dell’esile traccia
segnata sul terreno. Ci vuole una giornata di viaggio, ma
finalmente, quando il cielo lascia spazio a qualche raggio
di sole, davanti a noi appare maestosa la cima della montagna
più alta del mondo, l’Everest. E’ una
grande emozione, indescrivibile.
Dove termina la strada c’è un
piccolo rifugio, il vento gelido soffia senza tregua mentre
il buio della notte cala velocemente, è qui che passeremo
la notte, a 5.200 metri di quota sotto il monte che domina
il mondo.
Quassù tutto è più difficile:
muoversi, alimentarsi, dormire, ma il silenzio e l’atmosfera
di questo magico luogo alimentano il nostro corpo e creano
la forza necessaria per superare questi ostacoli. Nel cielo
si accendono le stelle mentre le bandierine con le preghiere
sventolano nel nulla dell’altipiano, noi, come sempre,
siamo solamente timidi spettatori.
La discesa verso Lhatse
è spettacolare, le nuvole sono basse e scure, a tratti
cadono scrosci di pioggia, dai finestrini della jeep si
vedono accampamenti di nomadi, è un video clip girato
nel passato quello che sto vivendo.
Lhatse è una città anonima,
un grande viale taglia in due l’abitato, ovunque ci
sono insegne cinesi e di tibetano è praticamente
rimasto pochissimo. Solo il piccolo mercato è degno
di una visita, il resto è solo cemento, messo lì
per dare una parvenza di progresso.
Per raggiungere Shigatse
bisogna superare il Gyatsola Pass a 5.220 metri, la strada
si snoda sui pendi dolci delle montagne creando geometrie
affascinanti.
Shigatse è una delle più importanti
città del Tibet e il monastero di Tashillumpo le
dà lustro e bellezza. Questo monastero attira migliaia
di turisti da tutto il mondo, si resta senza fiato quando
si cammina per i vicoli che si intrecciano tra una miriade
di cappelle dove i monaci sono intenti nella preghiera quotidiana.
Tashillumpo fu fondato nel 1447 da un discepolo
di Tsongkhapa, Grend Drup. Fu successivamente nominato Dalai
Lama e il suo corpo è ancora custodito in una cappella
del monastero. Appena si varca la porta del monastero si
gode una magnifica vista dell’intero edificio; sopra
gli edifici di colore chiaro, dove vivono i monaci, sono
raggruppate numerose strutture color ocra dal tetto dorato,
qui sono ospitate le tombe dei Panchen Lama del passato.
Tashillumpo è anche uno dei pochi
monasteri del Tibet ad aver superato il tempestoso mare
della rivoluzione e ancora oggi, a distanza di anni, è
un vero piacere esplorare gli angoli più nascosti.
Si lascia Shigatse la mattina presto, il
viaggio verso Gyantse, l’altra città
tibetana famosa ai viaggiatori, richiede quasi dieci ore
di auto. Questo tratto di Friendship è uno dei più
tortuosi, l’asfalto è quasi inesistente, le
frane invadono spesso la carreggiata e, come se non bastasse,
i fiumi in piena fanno il resto invadendo con acqua e detriti
il già esile passaggio.
E’ buio quando si arriva a Gyantse,
la città è in rifacimento, è tutto
sottosopra con operai che lavorano ad ogni ora del giorno
e della notte con arnesi rudimentali e badili spuntati.
Gyantse è famosa per il monastero
di Phklkor dove dall’alto dei suoi stupa si possono
vedere i panorami della città e delle montagne che
la circondano. Fondato nel 1418, Phklkor è uno dei
monasteri più importanti di questa regione. Oggi
il grande cortile, racchiuso in una cinta muraria che prosegue
sulle colline alle spalle del monastero, è in gran
parte vuoto e degli edifici rimasti si occupano i monaci
Gelugpa. Passeggiare per le viuzze di questo monastero significa
imbattesi in centinaia di dipinti murali. La statua centrale
di Sakyamuni è affiancata dai Buddha del passato
e del futuro mentre le cappelle che si incontrano durante
la visita sono delle vere e proprie opere d’arte.
Lhasa è ormai vicina,
un altro giorno di viaggio, poi, finalmente siamo nel cuore
del Tibet.
L’arrivo
nella capitale tibetana è abbastanza deludente, i
viali in stile cinese mi fanno presagire che del vecchio
Tibet è rimasto ben poco. Fortunatamente non è
così, il Barkhor è rimasto intatto, o quasi.
Pernottiamo al Mandala Hotel, proprio davanti
al Jokhang. Dalle finestre della camera lo spettacolo è
unico, ad ogni ora del giorno.
La mattina presto i pellegrini fanno la fila per entrare
nel templio, la piazza si anima di bancarelle e i venditori
ambulanti rincorrono i turisti offrendo le loro mercanzie,
il profumo delle spezie è ovunque, l’atmosfera
si fa intensa, si respira il vero Tibet. Per tutta la giornata
è un continuo brulicare di gente, la sera, quando
si spengono le luci della città, ovunque regna il
silenzio, rotto solo da qualche litania proveniente dai
monasteri vicini.
Lhasa è il cuore e l’anima del
Tibet, per anni è stata la residenza del Dalai Lama,
ora invece, nonostante la pesante influenza cinese, è
la meta di devoti pellegrini. Il Jokhang è il centro
spirituale della città, una curiosa mescolanza di
contrasti di luce, nuvole d’incenso e pellegrini sdraiati
a terra per la preghiera. Lo circonda il Barkhor, uno dei
circuiti più sacri di tutto il Tibet dove una miriade
di mulini di preghiera girano ad ogni ora del giorno accompagnati
da mistiche litanie.
E’ qui che la maggior parte dei visitatori
ci lascia il cuore, è qui che ci si ferma e si cerca
di capire questa realtà tanto lontana dai nostri
schemi di vita.
Il Monastero di Sera, Drepung, il Potala…
come poter dimenticare tanta bellezza, come poter cancellare
tante emozioni, i ricordi di questo splendido viaggio ai
confini col cielo rimarranno indelebili nelle nostre menti
per sempre, la visione delle immagini in bianco e nero scattate
in questo mese saranno solamente un modo, più concreto,
per essere vicino a questo mondo, un modo come un altro,
per ritornare e continuare a sognare.