RUSSIA – SIBERIA – MONGOLIA
(Aprile - Maggio - Giugno 2005)
testo
e foto di Sandra Mondini & Maurizio Missana
Dopo l’Asia Centrale, ci siamo presi
un anno di riposo tornando in luoghi “civili”
quali la Scandinavia e raggiungere poi le Svalbard concedendoci
qui dieci giorni di crociera su di un rompighiaccio alla
ricerca di orsi polari. Ma quest’anno il desiderio
di avventura s’è rifatto vivo e abbiamo deciso
di arrivare in Mongolia passando per Russia e Siberia. La
meta era la “terra di Gengis Khan”, ma l’attraversamento
del più esteso stato del mondo, qual è la
Federazione Russa, ha costituito un viaggio nel viaggio,
forse ancora più interessante ed avventuroso della
stessa Mongolia. Con al seguito Mariarosa e Luciano, la
coppia veronese che ci aveva già fatto compagnia
nel tour in Asia Centrale, siamo partiti la sera del 23
Aprile. L’intero viaggio è durato 60 giorni,
dallo stesso 23 sino al 21 Giugno; abbiamo attraversato
10 Nazioni (Austria – Ungheria – Ucraina –
Russia – Mongolia – Lettonia – Lituania
– Polonia – Cekia – Slovacchia) e percorso
26.800 chilometri di cui 23.300 in camper, 2.500 in fuoristrada
e 1.000 in aereo. Una annotazione: gran parte delle informazioni
che si trovano su Internet circa i viaggi in Russia, sono
errate o non veritiere come ad esempio il fatto che il CB
sia vietato, che sia obbligatoria l’accensione diurna
delle mezzeluci, che occorrano permessi speciali per entrare
col camper ed altre simili amenità. Nulla di tutto
ciò è vero. Probabilmente si tratta di mala-informazione
operata ad arte dalle agenzie per vendere i loro servizi.
Noi abbiamo fatto tutto per conto nostro.
23/04 – Castel d’Aiano > Autostazione
Udine Sud – km 310
L’appuntamento con gli amici veronesi è fissato
per domani mattina, tuttavia decidiamo di partire questa
sera per risparmiarci una levataccia. Dormire a casa o in
una autostazione sull’autostrada non fa differenza
anzi, saremo più freschi e riposati. Non dovremo
comunque attendere domani per incontrare Luciano e Mariarosa
in quanto riescono a sganciarsi da un matrimonio e ci raggiungono
a Venezia. Dopo l’Asia Centrale si ricompone così
la coppia di camper, il nostro Hymer e il loro Benimar,
che affronterà questa nuova avventura.
24/04 – Udine Sud > Hortobagy
(Ungheria) – km 833
Ci lasciamo alle spalle un’Italia coperta di nuvole
e un bel sole saluta l’entrata in Austria. Per fortuna
il traffico è molto scarso poiché sino a Graz
l’autostrada è un susseguirsi di cantieri.
Poi le cose migliorano e arriviamo al confine ungherese
molto rapidamente. I controlli sono praticamente inesistenti
e a mezzogiorno siamo a Budapest. L’attraversamento
della città è veloce e continuiamo verso la
frontiera ucraina decidendo di passare la notte nel parco
di Hortobagy dove eravamo già stati quattro anni
fa. Il traffico è piuttosto sostenuto e ci sorge
naturale una domanda: come fanno gli ungheresi a mettersi
in auto quando il prezzo del Diesel è di 1,4 Euro
al litro, mentre un menù turistico ne costa 3? Comunque,
al tramonto siamo ad Hortobagy dove, con nostro disappunto,
troviamo tutti e due i ristoranti chiusi. Peccato, quattro
anni fa mangiammo molto bene. Non ci resta che cenare in
camper.
25/04 – Hortobagy > Dubno
(Ucraina) – km 513 + 1 ora dall’Italia
Lasciamo la località ungherese alle 8 del mattino
e in due ore e mezza siamo a Zahony-Chop, il confine con
l’Ucraina. Piove e fa abbastanza freddo. Davanti ai
nostri mezzi si estende una mostruosa colonna di furgoni
Mercedes Sprinter carichi di merci occidentali. Sono tutti
in attesa di espletare le formalità doganali. Noi
non abbiamo merci soggette a dogana e, a fatica, sopravanziamo
la coda riuscendo ad uscire verso le 13. Rispetto a quattro
anni fa le strade ucraine appaiono alquanto migliorate.
L’asfalto è nuovo con buona segnaletica; tuttavia,
i lavori d’allargamento della carreggiata rendono
faticosa la guida per lunghissimi tratti. Per decine e decine
di chilometri fango, buche e TIR obbligano a basse andature.
Una vera tortura cui si aggiunge la pioggia che ci accompagna
senza tregua. Lungo quei lunghi tratti sterrati ci torna
in mente la curiosa domanda di uno dei tanti conducenti
di Sprinter fermi in dogana “Quante gomme di scorta
avete?”. Se lo stato delle strade è tutto così,
cominciamo a dubitare che le tre che abbiamo per entrambe
i camper siano sufficienti. Fino a Leopoli è un susseguirsi
di cantieri poi, in direzione di Kiev, le condizioni migliorano.
Ci fermiamo per la notte fuori dal paesetto di Dubno, in
un parcheggio abbandonato, squallido e fangoso, nei pressi
di una locanda dove ceniamo piuttosto bene con 8 €
in quattro, birra e vodka comprese. Continua a piovere.
26/04 – Dubno > Lubny (Ucraina)
– km 734 + 1 ora
Questa mattina non piove più, ma il freddo permane
col termometro che non supera gli 8 °C. Ci muoviamo
verso Kiev su di una strada discreta, quasi interamente
alberata, che si allunga su una pianura ondulata semi allagata
dalle piogge. Il traffico è scarso, ma le pattuglie
della polizia abbondano. Tutte dotate di pistola radar.
Il parco macchine ucraino appare nettamente migliorato:
molte le auto europee nuove fra le quali spicca la mancanza
del marchio Fiat. Gli ucraini hanno una buona condotta di
guida, forse per merito dell’onnipresente polizia.
A metà pomeriggio raggiungiamo la capitale ucraina.
L’attraversiamo nel tempo record di 45 minuti, ma
poi sbagliamo strada e, solo dopo un’ottantina di
chilometri, ci accorgiamo di andare verso la Bielorussia.
Torniamo indietro e riprendiamo la giusta direzione verso
Poltava. Procedendo, riconosciamo l’Ucraina vista
quattro anni fa. Minuscoli villaggi di case, spesso in legno,
con l’orticello e i grandi nidi di cicogne sui pali
della luce. Alberi colonizzati da rotondeggianti ammassi
di vischio e da torme di corvi gracchianti. Vecchi camion
sovietici, Tir stracarichi avvolti da nuvole nere di gas
di scarico, corriere che stanno assieme per miracolo, carretti
tirati da cavalli, moto-sidecar. In questa zona l’Ucraina
non è molto cambiata. A sera ci fermiamo a Lubny,
nel parcheggio di una vecchia fabbrica mezza distrutta che
l’intraprendenza di un qualche affarista sta trasformando
in un accogliente punto di sosta turistico. V’è
già un bell’albergo con un grazioso belvedere
sul fiume. Cena in un misero ristorante nei pressi del parcheggio,
dove non si riesce a spendere un Euro in quattro.
27/04 – Lubny > Krasnodon/Doneck
(Russia) – km 715 + 2 ore dall’Italia
Giornata di trasferimento in un piacevole clima primaverile.
La strada è discretamente buona immersa in una campagna
smisurata. Attraversiamo Poltava e Karkov senza problemi
procedendo verso il confine con la Russia. Come per incanto
sono scomparsi dalla carreggiata carretti, cavalli e galline.
Anche le cicogne non ci sono più. In compenso i villaggi
sembrano più benestanti. Proseguiamo ad allenarci
nella lettura dei cartelli stradali in cirillico e a Bran’ka
svoltiamo per Krasnodon. Siamo in una zona ricca di miniere,
in parte dismesse. Il paesaggio non è dei migliori:
enormi colline di scorie minerali ci fanno compagnia e compaiono
gli scheletri di fabbriche chiuse. I villaggi qui sono miserevoli,
con casupole abbandonate che cadono a pezzi. A Krasnodon
arriviamo che è buio e qui il buio è di quelli
con la B maiuscola. La cittadina è squallida, le
strade sono in condizioni pietose con tracce di asfalto.
Le
buche hanno qualcosa di sovrumano. Fatichiamo non poco a
imboccare la strada per la frontiera che si inerpica fra
i monti, sterrata, senza alcuna indicazione. Ci sembra di
percorrere un sentiero di montagna e dubitiamo fortemente
che quel tratturo conduca al posto giusto, sino a quando
la frontiera si materializza alla sommità di un dosso.
Sono le 21 e siamo soli. Con 80 dollari stipuliamo l’Assicurazione
RC auto per la Russia quindi ci apprestiamo ad uscire dall’Ucraina.
Qui iniziano i primi incagli burocratici. Le guardie si
insospettiscono per il nostro visto russo d’affari
e mobilitano anche un interprete che parla inglese, per
comprenderne il perché. Comunque, dopo un’ora
di domande ci fanno passare fra sorrisi e strette di mano.
Al posto di frontiera russo, distante 700 metri, attendiamo
due ore in coda ad un vecchio camion prima che si degnino
di alzare la sbarra. Il luogo è desolato. Mentre
la frontiera ucraina è stata rinnovata, tutto sommato
con gusto, qui ogni cosa è rimasta come 70 anni fa:
baraccamenti di legno cadenti, strada sterrata piena di
buche e fango, chiazze di nafta ovunque, tubi arrugginiti
e grovigli di fili elettrici che pendono da tetti sgangherati
di eternit. Il freddo è pungente. Al controllo passaporti
tutto sembra filare liscio sino quando interviene una guardia
in borghese che chiede il visto d’ingresso per i camper.
Restiamo interdetti a quella richiesta. Ma la guardia, ora
spalleggiata anche dalla funzionaria che ha in mano i nostri
documenti, non demorde. Mostriamo le lettere d’invito
(copia originale in cirillico) della ditta russa sulle quali
è specificato che viaggiamo con i nostri mezzi e
dei quali sono riportate tutte le caratteristiche, numero
di targa e telaio compresi. È tutto inutile: noi
possiamo passare, ma i camper devono tornare in Ucraina.
Dopo un tiramolla durato due ore, i russi si arrendono ma,
quando tutto sembra risolto, compare un altro problema:
il timbro d’uscita ucraino è sbagliato (sic!)
Secondo i russi dobbiamo tornare indietro e far cambiare
il timbro. Siamo alla follia. Tuttavia Sandra e Mariarosa,
decidono di riattraversare la terra di nessuno e chiedere
lumi agli ucraini. Questi ultimi stanno dormendo della grossa
e solo con la minaccia di telefonare ai numeri di assistenza
turistica che campeggiano in un cartello posto all’ingresso
della frontiera ucraina e che noi abbiamo annotato (Kiev
8044 2778742 – Kharkiv 8057 7004455 – Luhansk
80642 319036) viene svegliato il direttore della frontiera.
Costui esordisce con un “i russi sono degli idioti”
quando gli viene riferito il motivo del nostro ritorno.
Il timbro è corretto e lui non può fare nulla
di più. Sandra e Mariarosa rientrano e, sbandierando
sotto il naso dei russi i numeri dell’assistenza turistica
ucraina, riferiscono ciò che ha detto il collega
ucraino. La situazione si sblocca d’incanto e viene
apposto il visto d’ingresso sui passaporti. Alla dogana,
le operazioni sono celerissime: gli stessi funzionari, imprecando
contro i loro colleghi del controllo passaporti, si fanno
in quattro per accelerare le pratiche. Alle 4 del mattino
entriamo in territorio russo e parcheggiamo nell’area
di uno sgangherato benzinaio, a 500 metri dalla frontiera,
per passare quanto rimane della notte. Continua a fare un
freddo cane.
28/04 – Doneck > Volgograd
(Stalingrado) – km 409 + 2 ore
Dormiamo un po’ più al lungo e un bel sole
caldo ci saluta al risveglio. Gli alberi attorno sono pieni
di grossi corvi gracchianti. Qualche vecchio camion militare
si ferma per fare rifornimento. Partiamo verso le 10 e il
primo problema da affrontare è cambiare valuta con
rubli. Trovare una banca in questa zona non è facile.
Le case del primo paesetto che incontriamo, si affacciano
basse e tristi lungo marciapiedi disastrati e pieni di buche,
con impianti di illuminazione pubblica che solo a guardarli
danno “la scossa”. I negozi sono rari, anzi,
ce n’è uno solo, il magazin, in cui si vende
di tutto, dal pane al vestito. Il centro del paese è
introvabile. Qui i Romani non sono arrivati e il concetto
di cardo/decumano non è applicabile per cui diventa
difficile capire quale sia la strada principale dove in
genere dovrebbero essere le banche. Ne troviamo per caso
una, ma questa non è abilitata al cambio. Alla successiva
cittadina riusciamo a cambiare in fine, anche se dobbiamo
fare i conti con l’inettitudine di impiegati scontrosi.
Riprendiamo in direzione di Volgograd. L’asfalto è
buono e la strada corre dritta lungo una sterminata pianura
interrotta da colline di scorie minerarie. Ricominciano
i posti di blocco fissi della polizia. Veniamo ripetutamente
fermati, ma solo una volta gli agenti procedono alla registrazione.
In ogni caso sono cortesi. Dopo una breve sosta pranzo,
il tempo peggiora e inizia a piovere. Il traffico è
abbastanza scarso, perlopiù costituito di camion
che sembrano usciti da un film malevolo sulla vecchia URSS,
e di corriere che sono mucchi di ruggine tenuti assieme
dalla vernice. Incomincia anche lo strazio dei rifornimenti
di gasolio. I benzinai se ne stanno asserragliati in chioschi
corazzati e comunicano con l’esterno attraverso feritoie
di 15 centimetri per 20. Quelli più modernizzati
invece usano un altoparlante che inonda l’area di
servizio di urla incomprensibili. Il concetto di “pieno”
– in russo polny – è a loro estraneo.
Forse ha ancora troppe caratteristiche “borghesi”
e, anche se si allunga una banconota da 1.000 rubli, cifra
consistente considerando che la pensione media mensile di
un operaio si aggira attorno ai 360 rubli, essi continuano
a chiedere quanti litri vuoi. Comunque, fare rifornimento
non è un grosso problema. Verso le 17 raggiungiamo
il Don e sostiamo in un’ampia area dove si trovano
una baracca-bar e numerose bancarelle che vendono pesce
seccato. C’è sporcizia e fango ovunque. Sarà
forse perché il cielo è grigio e sta piovendo,
ma lo squallore è grande e la miseria pure. Verso
le 19 entriamo nell’infinita periferia di Volgograd,
questa enorme città che si allunga per 70 chilometri
sulla sponda occidentale del Volga. Senza accorgercene quasi,
ci ritroviamo in pieno centro e troviamo ospitalità
per la notte in una piccola area di un benzinaio. Non ci
chiedono un soldo per la sosta, ma il mattino dopo lasceremo
comunque 50 rubli per il disturbo.
29/04 – Volgograd
Il clima è orrendo. Fa freddo e piove. L’accordo
col benzinaio presso cui abbiamo dormito era che dovessimo
muoverci presto e così siamo partiti alle 7. Dieci
minuti dopo, ci ritroviamo già sulla Mamaev Kurgan,
la collina-memoriale epicentro della battaglia di Stalingrado.
Sulla sommità sorge la gigantesca statua delle “Madre
Russia”, 72 metri, che brandisce una spada di ben
11 metri. Tutt’attorno, alla sua base, sono sparse
lapidi in marmo che riportano i nomi dei reparti che qui
combatterono. Più sotto, lungo il versante rivolto
verso il Volga, è stato edificato un Pantheon circolare
al cui interno una fiamma perenne rende onore ai 7200 soldati
qui caduti. Una lunga scalinata scende al fiume delimitata
ai lati da statue e muri sui quali sono rappresentati momenti
della lunga battaglia. Lasciati i camper in un grazioso
parcheggio nei pressi della grande statua, con un taxi,
chiamatoci gentilmente da una pattuglia di polizia, ci rechiamo
poi al Museo della Battaglia eretto nei pressi delle gigantesche
rovine di un vecchio mulino, unica imperitura testimonianza
degli eventi del 1942-43. Al secondo piano del museo, un
enorme diorama a 360° riproduce quella che doveva essere
la battaglia vista dalla Mamaev Kurgan. È vietato
fotografare e filmare. Il centro
della città è abbastanza piacevole e lungo
la via principale, che come tutte le vie centrali delle
città russe si chiama Ulitza Lenina o talora Ulitza
Marxa, i negozi stanno iniziando a mostrare vetrine di tipo
occidentale e quelli che vendono telefonini si sprecano.
Numerosi sono anche i bancomat. Ma appena un po’ fuori
dal centro si ripiomba nello squallore del fango, delle
buche, delle case fatiscenti e degli scheletri dei vecchi
edifici industriali abbandonati. Ceniamo in camper e passiamo
la notte nel parcheggio sotto alla statua della “Madre
Russia”, non senza aver fatto un giretto notturno
fra i monumenti della Mamaev Kurgan fra i poliziotti e militari
armati che presidiano l’area.
30/04 – Volgograd > Saratov
– km 467 + 2 ore
Oggi tappa di trasferimento a Saratov. Giornata uggiosa
con un paesaggio grigio e monotono, con tanto fango ai bordi
di una strada malamente asfaltata, spesso francamente dissestata.
Corriamo lungo il Volga, ma il fiume s’intravede a
tratti. Per raggiungerne le sponde svoltiamo ad un cartello
pubblicitario di un bar-caffè che, con tanto di ombrelloni
e sdrai, ci fa sperare in una spiaggia sul fiume. Ma ci
ritroviamo in un vecchio e malandato complesso vacanze sovietico
che si affaccia sul Volga 30 metri sotto. I questo punto
il fiume è così largo che non si riesce a
vederne la sponda orientale. Qualche chiatta si muove pigra
trascinata dalla corrente. Due foto e una ripresa, poi via
di nuovo verso Saratov. La strada è in condizioni
pietose. I rari parcheggi sono un mare di fango pieno di
rifiuti di ogni genere fra cui spuntano minacciosi pezzi
di ferro arrugginiti e infiniti cocci di bottiglia. I posti
di ristoro non sono degni neppure di essere descritti tanto
sono squallidi. Fra una buca e l’altra e continui
posti di controllo, giungiamo a Saratov. Qui veniamo fermati
all’ingresso in città al solito posto di polizia,
ma anziché registrarci ci contestano la fantasiosa
infrazione di “essere entrati in una città
in cui è vietato l’ingresso agli automobilisti
in possesso della patente italiana” (sic!). Da una
“große” multa si scende a una “kleine”
multa come riferisce il capoposto in uno stentato tedesco.
Prendiamo tempo, ma quello si tiene i nostri passaporti.
L’intervento di Sandra sblocca la situazione. Con
decisione dice “ digli che non abbiamo bisogno di
un parcheggio (autostoijanka) per dormire e che possiamo
stare qui sino a domattina in camper, e che telefoneremo
(telefony) ad un interprete (peredvocik) per capire meglio
che sta succedendo…” Poi se ne esce stizzita
dalla baracca. Non passa un minuto che il poliziotto ci
riconsegna i documenti. Evidentemente le tre parole pronunciate
in russo – autostoijanka, peredvocik e telefony –
sono la chiave per liberarsi delle pretese assurde della
polizia. Le useremo spesso durante tutto il viaggio, con
l’aggiunta di posodstvo (amabasciata), riuscendo sempre
a sottrarci a tutti i ricatti. A Saratov comunque, la polizia
è decisamente corrotta. Mentre cerchiamo di raggiungere
il luogo dell’atterraggio della capsula di Gagarin,
veniamo nuovamente fermati. Davanti a noi c’è
un giovane che, allungata una banconota al capoposto, se
ne va senza problemi. Poi è il nostro turno. Il militare,
quando scopre che siamo italiani, afferra il telefono e
si mette a parlare con un non meglio identificato interlocutore
(riteniamo che si sia messo in comunicazione col posto di
blocco all’ingresso della città). La sola parola
che comprendiamo è italianskji. Quindi ripone la
cornetta e con un sorriso ci rende i passaporti. Ripartiamo
sorpresi, ma soddisfatti: forse la lezione al primo posto
di blocco è servita a qualcosa. E che sia servita,
ce lo conferma il fatto che ad un terzo blocco non c’è
neppure bisogno di scendere: mostriamo il passaporto dicendo
italianskij e i poliziotti ci fanno subito andar via. Al
quarto posto poi, sono così gentili che ci chiedono
addirittura se abbiamo bisogno del loro aiuto per trovare
la strada verso Samara. Potenza di tre parole e di un visto
d’affari! Dopo aver girovagato a lungo nelle campagne
attorno a Saratov e attraversato più volte il Volga,
rinunciamo a cercare il luogo dell’atterraggio del
primo cosmonauta dell’umanità e prendiamo a
girovagare per la città in cerca di un posto dove
passare la notte. Saratov è un brutta città
dove condomini giganteschi e decrepiti fronteggiano casette
di legno che, nonostante finestre ornate da vivaci cesellature
in legno colorate di un brillante azzurro, non sono altro
che capanne. Le strade secondarie non sono asfaltate e il
fango regna sovrano. Gli enormi complessi industriali cadono
in rovina semidistrutti evocando immagini da Seconda Guerra
mondiale, anche se qui non è mai giunta. Con una
certa difficoltà troviamo parcheggio in una vecchia
e sporca area industriale cinta da alti muri orlati da filo
spinato, proprio sulla sponda del Volga. I guardiani dapprima
ci negano l’ingresso, poi con l’aiuto di un
sedicente poliziotto in borghese che parla quattro parole
di tedesco, spalancano i cancelli. Superata l’iniziale
diffidenza, sono così cortesi da portarci anche a
riempire i serbatoi dell’acqua. Ceniamo con gamberi
del Volga acquistati lungo la strada. Piove a tratti e continua
a fare freddo.
01/05 – Saratov > Ulianosk
– km 634 + 2 ore
Tappa di trasferimento. Il tempo è pessimo. Piove
e la temperatura non supera i 10 °C. La nostra meta
avrebbe dovuto essere Samara con le sue belle spiagge sul
Volga, ma a Vol’sk la polizia ci obbliga a una deviazione.
Facciamo 90 km e il dubbio di aver superato il bivio per
la città ci fa tornare indietro. Giunti nuovamente
alla deviazione, la polizia ci annuncia che per raggiungere
Samara bisogna passare da Ulianosk in quanto solo qui si
può attraversare il Volga. Il ponte che da Vol’sk
porta alla sponda orientale del fiume, e dunque a Samara,
è pericolante ed è stato chiuso al traffico.
Riprendiamo così la strada già percorsa
e al tramonto siamo alle porte di Ulianosk. Sventato un
tentativo di estorcerci danaro al solito posto di blocco,
parcheggiamo in un’area custodita e decidiamo di andare
a mangiare in un ristorante del centro cittadino, nonostante
Sandra giudichi poco sicura la sistemazione dei mezzi. Saliamo
su di un taxi collettivo, puzzolente di vodka e sudore,
e veniamo investiti da una serie di insulti di un ubriaco.
A bordo siamo in dieci, autista compreso, e di queste dieci
persone almeno quattro sono ebbre, due da non reggersi neppure
in piedi. Una signora anziana prende le nostre difese e
ci spiega che l’ubriaco non ce l’ha con gli
italiani ma con gli stranieri in genere, che rubano il lavoro
ai russi. Evidentemente l’uomo si riferisce alle tante
nazionalità che circolano in nella Federazione Russa:
questa non è terra di emigrazione europea, almeno
per ora. La città di Ulianosk, la vecchia Simbirsk
dove nacque Lenin, è un bruttissimo agglomerato di
palazzoni sovietici immersi in un mare di fango, condomini
di un grigio sporco che non conoscono manutenzione dall’epoca
della loro costruzione, sporcizia ovunque. Sta piovendo
e le strade sono sommerse da spanne d’acqua. Il centro
è talmente poco rassicurante che ci sediamo al ristorante
solo dopo aver avuto la certezza di poter chiamare un taxi
(un’auto e un non pulmino collettivo) per il rientro
ai mezzi. Ottima cena in un locale degno dell’Occidente
e al cui ingresso due buttafuori col fisico da orango, fanno
buona guardia allontanando i molti ubriachi che gironzolano
in zona. Al ritorno ci aspetta una sorpresa. I fari del
taxi illuminano due ombre che armeggiano attorno all’Hymer,
Luciano si scaraventa fuori dall’auto ma le ombre
si dileguano, una saltando dal tetto del camper. Il nostro
arrivo è stato provvidenziale, non hanno rubato nulla
anzi, hanno perso anche un paio di scarpe che troviamo dietro
al camper. I danni sono limitati alla rottura della maniglia
della finestra di cucina che, stranamente, è ancora
chiusa, come chiuse sono anche tutte le porte e le altre
finestre. Forse è entrato dall’oblò.
Ma la cosa più interessante è che i due ladri
erano in azione nonostante la presenza di un posto di blocco
volante di polizia proprio davanti all’ingresso del
parcheggio. Strane coincidenze, perché anche il guardiano
dormiva. Le sensazioni di Sandra erano corrette.
02/05 – Ulianosk > Jazykovo
– km 590 + 3 ore
L’esperienza di ieri sera non ha lasciato segno. Ripartiamo
decidendo però di evitare di passare la notte nella
periferia delle grosse città. Visto di giorno, lo
squallore di Ulianosk è tale che lo stesso Lenin
si rivolterebbe nella tomba. Anche i villaggi che s’incontrano
sono
squallidi: catapecchie cadenti, fattorie collettive abbandonate
dove porte, finestre, infissi, tegole e persino le travi
del tetto sono state portate via. Sporcizia ovunque e fango,
fango: la “rasputiza” dei russi. Il fango primaverile
che permea tutto. Certo se ci fosse anche un po’ di
asfalto, le strade dei paesi sarebbero un po’ meglio.
E poi gli ubriachi. Tanti ubriachi che camminano barcollando.
Talora sono così fradici da crollare a terra avvitandosi
su se stessi come fagiani colpiti da una fucilata. E rimangono
lì, dove sono caduti, sotto il sole o la pioggia.
Oggi in Russia è un giorno di festa, la Festa di
Primavera, ma gli ubriachi s’incontrano anche nelle
giornate feriali dove non c’è nulla da festeggiare.
E la vodka forse, è l’unico rimedio al vivere
qui. Come dar loro torto osservando quanto li circonda?
I posti di blocco sono asfissianti, come le pattuglie della
polizia con in mano l’immancabile pistola radar. Verso
Ufa, incontriamo un TIR turco e ci viene spontaneo suonare
il clacson mentre lo sorpassiamo. Un gesto di saluto verso
un autista sconosciuto che in quelle zone consideriamo quasi
un fratello europeo. Miseria, centinaia di chilometri di
miseria mescolata a fango. Attraversiamo un tratto di Tatarstan
e poi giungiamo nella Repubblica dei baskiri dove le cose
cambiano. La polizia è più cortese, meno presente.
Il tenore di vita ci sembra più elevato. Le case
non sono catapecchie cadenti, compaiono persino dei capannoni
nuovi o in costruzione e gli edifici delle fattorie collettive
sono ancora funzionanti e ben tenuti, non depredati come
qualche chilometro indietro. Anche il fango ci sembra meno
“fangoso”. Qua e là spuntano piccoli
e moderni pozzi petroliferi. Sarà per tutto questo,
sarà per un Amministrazione migliore, sarà
per una differente indole della gente che vive qui –
vi è una minoranza mussulmana di lingua turca –
ma ci sembra tutto più piacevole. È ormai
notte e ci fermiamo davanti ad una spartanissima trattoria
con un ampio parcheggio dove solo alcuni tratti di asfalto
ci impediscono di affondare nel fango. Con 2 € si mangia
in quattro anche se in piatti di plastica, con un solo coltello
e senza tovaglia. In compenso si paga prima di mangiare,
come dai benzinai. Cade una pioggia battente e fredda.
03/05 – Jazykovo > Ufa > Abzakovo – km
397 + 3 ore
Alla luce del mattino l’area dove abbiamo passato
la notte ha un aspetto da incubo. In primo piano, un enorme
contenitore arrugginito pieno di rifiuti sul quale si posano
corvi grossi come aquile; in secondo piano, una distesa
di fango grigiastro intriso di nafta; in terzo piano, il
lavabo “esterno” della traballante trattoria
verso cui si stanno dirigendo due persone in tuta (ma dove
avranno dormito?) con l’evidente scopo di sciacquarsi
la faccia; sullo sfondo, una baracca sghimbescia che racchiude
la latrina. Ma siamo nell’Europa del 2005 o dove?
Con queste immagini negli occhi ripartiamo in direzione
di Ufa, la capitale della Baskiria. La strada è discreta
e ai soliti posti di blocco i poliziotti sono più
cortesi e anche curiosi di visitare i nostri mezzi. Di “registrazione”
non se ne parla
neppure. La periferia della città ha un aspetto nettamente
migliore rispetto a quelle sul Volga. Strade pulite, marciapiedi,
niente “baracche”, né scheletri del passato
industriale. Vi sono ovunque cantieri edili e si nota una
certa attività lavorativa. I quartieri della zona
sul fiume omonimo sono allagati, con l’acqua che arriva
alle finestre, il che fa supporre che il maltempo di questi
giorni sia un evento insolito. Parcheggiamo in un piazzale
del centro e andiamo a dare un’occhiata. In una accozzaglia
di stili quasi piacevole e tipica di qui, bei palazzi si
affacciano su Ulitza Lenina. Un nuovo ed elegante centro
commerciale è stato costruito al coperto in una vecchia
galleria del secolo scorso. Fatichiamo un po’ a trovare
il cottage di legno dove Lenin trascorse tre settimane durante
il viaggio verso l’esilio in Siberia. Purtroppo è
chiuso. Ufa è una città vivace, con gente
cordiale. Tre giovanotti ci fermano per strada sentendoci
parlare straniero e, appurato che siamo italiani, insistono
per farci parlare al telefono con la madre di uno di loro
che lavora in Sicilia a Capo Orlando. Sono felici del nostro
colloquio con la loro madre. Strani questi baskiri. Ripartiamo
decidendo di fare una deviazione a Magnitogorsk. La strada
non è perfetta, ma neanche tanto brutta. Attraversiamo
graziosi e ordinati villaggi che sorgono sui primi contrafforti
meridionali degli Urali. Il paesaggio diventa montano. Pascoli
verdi, mandrie di bovini e cavalli accompagnano la nostra
marcia. Anche il tempo migliora e compare un timido sole.
Dopo aver visto la Russia del Volga si può dire che
la Baskiria sia una piccola “Svizzera”. Qui
tutto è ordinato e non ci sono cumuli sparsi di immondizie.
Procediamo fra chilometri e chilometri di boschi di conifere
e altissime betulle dal bianchissimo tronco. Superata Berdiansk,
una anonima cittadina industriale mussulmana, ci fermiamo
nei pressi di Abzakovo, nel parcheggio di un elegante ristorante
con bungalow di recentissima costruzione. Subito siamo l’attrazione
di due famiglie di clienti cui non possiamo negare la visita
dei mezzi seguita da brindisi finale a base di Limoncello.
Poi cena al ristorante che ha come attrattiva anche uno
splendido esemplare di aquila, purtroppo rinchiusa in gabbia.
04/05 – Abzakovo > Magnitogorsk
> Celjabinsk > Kurgan – km 683 + 4 ore
Il maltempo ci segue implacabile, anche se oggi è
solo nuvolo e non piove. Partiamo di buon mattino e quando
superiamo il fiume Ural,
siamo geograficamente in Asia. In breve raggiungiamo Magnitogorsk,
la quintessenza dell’urbanistica industriale sovietica.
Gigantesche ciminiere emergono da sterminati casermoni dormitorio
grigi e cadenti, circondati a loro volta da un mare di garage
costruiti alla buona con qualsiasi tipo di materiale. Nuvoloni
di fumi avvolgono le ciminiere e i palazzi più alti
spandendo un acre puzzo su tutta la città. Inutile
descrivere lo stato delle strade cittadine, tutto buche.
Fortunatamente le vie sono ampie pur avendo al centro le
rotaie dei tram. Non vi sono salvagente alle fermate e la
gente è costretta a salire e scendere sfidando il
traffico. Magnitogorsk è stata chiusa agli stranieri
fino agli anni novanta e sarà per questa ragione
che i cartelli stradali sono pochissimi, anzi nel centro
proprio non ce ne sono. Inutile chiedere informazioni ai
passanti: costoro scappano non appena ti avvicini o non
capiscono quelle quattro parole di russo che sappiamo (o
fingono di non capire). In compenso da quando siamo in queste
zone, i controlli di polizia e i posti di blocco sono diventati
molto rari e non ci hanno ancora fermato. E, incredibile
a dirsi, qualche poliziotto ci ha anche sorriso. Fatichiamo
un po’ per uscire da Magnitogorsk, ma poi imbocchiamo
la strada per Celjabinsk dove arriviamo verso mezzogiorno.
Anche questa enorme città, chiusa agli stranieri
fino a pochi anni fa, non brilla certo per bellezza. La
solita squallida periferia percorsa da ammassi di grossi
tubi che serpeggiano ai lati della strada come rettili che
stanno mutando la pelle, tanto è lo stato pietoso
di quella che un tempo avrebbe dovuto essere una copertura
isolante, caseggiati del solito grigio sovietico e ammassi
di piccoli e cubici garage con due colori predominanti:
il grigio e il marrone sporco, ruggine, sarebbe meglio dire.
È una città industriale. Qui venivano prodotti
i famosi carri armati T34 e i razzi Katuscia. L’attraversamento
di Celjabinsk è un incubo. Non ci sono cartelli e
l’assessore al traffico o era ubriaco o folle. Sembra
di muoversi in certi labirinti della Settimana Enigmistica.
Ci fermiamo persino ad un posto di blocco per chiedere indicazioni.
I poliziotti sono sorpresi da tanto ardire: qualsiasi russo
attraversa la strada pur di non passare vicino a un poliziotto.
Il loro aiuto ci porta ad imboccare la giusta direzione.
E andando verso Osmk ci lasciamo
alle spalle un mare di discariche a cielo aperto. Ora la
strada corre diritta fra grigi acquitrini da cui si innalzano
boschetti di betulle e abeti. Il fondo stradale è
buono e si può viaggiare attorno ai 120 km/h anche
perché la polizia è quasi assente e il traffico
molto scarso. Taluni posti di blocco fissi sono deserti.
La monotonia del paesaggio è ravvivata dalla presenza
di numerose tombe ai lati della strada. Sono i ricordi degli
incidenti stradali (in seguito ci diranno che in talune
vi è sepolto persino lo sfortunato guidatore) come
testimoniano i volanti contorti, le parti del motore o addirittura
i pezzi di carrozzeria che vengono messi sul tumulo a mo’
di ornamento. A Kurgan, mezza città è sott’acqua.
Decidiamo di andare oltre anche perché ad un posto
di polizia fisso assistiamo ad una scena da film. Un auto
forza il blocco, il poliziotto si aggrappa allo sportello
e viene trascinato per metri e poi scaraventato a terra.
Ma il poveretto non demorde. Si rialza e sale a bordo dell’auto
davanti al nostro camper intimando al conducente di invertire
la marcia e di seguire il fuggitivo. Degno di Hollywood!
Il luogo non ci sembra l’ideale per una sosta notturna.
Ci fermiamo dopo 30 chilometri in un posto ameno: un bosco
di tralicci elettrici con un gigantesco ripetitore in primo
piano. Non siamo soli, arrivano tre TIR turchi che ci fanno
compagnia tutta la notte.
05/05 – Kurgan > Omsk –
km 603 + 4 ore
Finalmente un bella giornata. Dopo un centinaio di chilometri
di asfalto zeppo di grosse buche che ci obbligano ad un
continuo zig-zag, giungiamo su strade in buono stato, senza
posti di blocco fissi o polizia acquattata dietro alberi.
Il paesaggio di laghetti azzurri e boschi di betulle che
stanno mettendo le prima foglie è molto gradevole.
Per un paio di chilometri un piccolo stormo di oche migranti
tengono il passo col nostro camper. A mezzogiorno, arriva
una foratura. La gomma posteriore sinistra dell’Hymer
viene aperta nel mezzo del battistrada. Il gommista dice
che è irreparabile o che, anche accomodata, non la
potremo usare per più di 50-60 chilometri data la
sede e la natura del taglio. Decidiamo di ripararla anche
perché in 50-60 chilometri un gommista si trova sempre
nel caso forassimo due gomme contemporaneamente. Il viaggio
riprende tranquillo e prima del tramonto siamo parcheggiati
in una polverosissima autostojanka alla periferia di Omsk.
Cena in camper.
06/05 – Omsk > Kargat –
km 590 + 5 ore
Il bel tempo ci assiste. Parcheggiamo a Omsk in pieno centro,
ovvero fra Ulitza Marxa
e Lenina, che sono i soliti nomi delle strade principali
delle città russe. In U. Lenina sono ancora ben conservati
gli edifici dell’inizio del secolo scorso, colorati
con tenui colori pastello. Di pregio è il teatro
che domina la via con le sue cupole verdi. Ciò che
le guide non scrivono è che “fare una passeggiata
nel centro di una città russa” significa pianificare
accuratamente il tempo a disposizione. Le ulitze sono chilometriche
e per attraversarle è meglio usare i sottopassi data
la “sbadataggine” dei guidatori russi; in più,
causa le pessime condizioni delle strade, è assolutamente
doveroso guardare dove si mettono i piedi per evitare rovinose
cadute come è successo a Sandra. Se poi tira vento,
si sollevano tonnellate di polvere che non trovano altro
di meglio che finire nei tuoi occhi. Ma a parte questi piccoli
“inconvenienti”, passeggiare per Omsk è
piacevole. Visitiamo anche una vecchia casa di legno, ora
trasformata in museo, che accoglie una raccolta di dipinti
(belli) di tal Kondraty Belov. C’è persino
un ritratto del generale Kolciack, uno dei capi delle Armate
Bianche che a Omsk avevano il loro quartiergenerale. Cosa
impensabile fino a qualche anno fa. Dopo uno spuntino in
un moderno locale, riprendiamo il cammino verso
est. Uscire da Omsk si rivela un’impresa difficoltosa.
Dobbiamo imboccare la M51, ma di M51 se ne dipartono due
verso Novosibirsk e la nostra è quella più
meridionale (la settentrionale non è neppure riportata
sulle mappe occidentali; solo sul nostro atlante russo).
Impieghiamo più di un’ora per trovare la via
giusta, grazie anche alla mancanza di segnaletica e alla
contorta urbanistica russa. La strada fila dritta, senza
una curva, verso oriente fra boschi di betulle, pascoli
e laghetti paludosi dove qualche uccello migratore è
già tornato. Non si incontrano più villaggi,
che rimangono lontani dalla strada cui sono collegati da
tratturi fangosi che si perdono fra foreste e paludi. Stiamo
viaggiando a fianco della Transiberiana, trafficatissima
di treni merci. I posti di blocco della polizia sono in
genere a 30-40 chilometri l’uno dall’altro.
Non ci fermano né ci degnano di uno sguardo. Stiamo
correndo a 110 km/h verso un altro fuso orario e così,
verso le 19, ci fermiamo in una grande area di sosta per
TIR. Non c’è asfalto, ma in compenso è
fornita di calde docce nuove. Il locale è stupefacente
per gli standard russo-siberiani: pavimenti di bianca ceramica,
bagni profumati, lindi e moderni, docce confortevoli con
asciugacapelli elettrici, servizio di manicure e parrucchiere.
Un sogno, dopo tanto squallore. Anche il ristorantino ha
pretese di eleganza e si mangia piuttosto bene. La Russia
è sempre sorprendente.
07/05 – Kargat > Novosibirsk
> Tomsk – km 485 + 5 ore
Un lungo rettilineo di oltre 100 chilometri ci porta a Novosibirsk,
la capitale della Siberia. È un brutta città
di oltre due milioni di abitanti, che si estende sulle rive
del fiume Ob. Traffico caotico, binari del tram che si ergono
come lame di rasoi dal piano stradale, rotonde gigantesche
punteggiate da crateri, vecchie case in un centro in semirovina
e cumuli di palazzoni grigiastri formano la Novosibirsk
di oggi. Del tutto
deludente. Ne usciamo a fatica e imbocchiamo la strada che
porta a Tomsk, vecchio avamposto cosacco che nel 2004 ha
festeggiato i 400 anni di nascita. Il traffico è
scarsissimo e corriamo veloci fra boschi di conifere di
un verde quasi nero. Arriviamo verso le 18. Finalmente una
città che si presenta senza l’orribile periferia
che abbiamo visto sino ad ora. Le strade sono in buono stato
e la segnaletica conduce direttamente in centro. Sarà
perché Tomsk è rimasta “isolata”
dallo sviluppo sovietico essendo lontana dalla Transiberiana,
sarà per i lavori di restauro del 400° compleanno,
ma il suo centro è molto gradevole con i suoi palazzi
rimessi a nuovo e le case di legno con le finestre orlate
di decori intarsiati a vivaci colori. C’è una
notevole animazione e, fra le varie vetrine, spicca persino
un negozio di souvenir. Una variopinta folla, fra cui molti
giovani dall’abbigliamento ricercato in stile occidentale,
talora un po’ ridicolo, riempie marciapiedi e piazze.
Parcheggiamo davanti al Museo delle Forze Armate dove passeremo
la notte. Quindi cena in un ristorante molto elegante con
musica dal vivo e cucina ottima. La “zuppa siberiana”
si rivela un’autentica sorpresa: si tratta di “tortellini”
in un ottimo brodo di carne.
Nota: oggi la polizia ci ha fermato solo un paio di volte,
e più per curiosità che per altro. E quando
i poliziotti scoprono che veniamo dall’Italia e che
andiamo in Mongolia scoppiano a ridere, soprattutto quando
si rendono conto che non parliamo russo.
08/05 – Tomsk > Marinsk >
Emelianovo – km 525 + 6 ore
Impieghiamo più di un’ora e un quarto per uscire
da Tomsk. Cerchiamo infatti una strada secondaria, come
al solito non segnata sulle mappe occidentali ma presente
nell nostro Atlante russo, che incrocia la M51 a Marinsk.
Ci perdiamo due volte,
ma infine troviamo la giusta direzione. La strada alterna
tratti di manto vellutato a tratti in pessime condizioni.
Poco prima di Marinsk, incontriamo finalmente tre bei villaggetti
siberiani con le tipiche case di legno dalle finestre colorate
di azzurro. Hanno il classico aspetto del villaggio di campagna.
Sono poveri, ma dignitosi e straordinariamente puliti. Tornati
sulla M51, ricompare il solito panorama di bottiglie, lattine
e sacchi di plastica che spuntano ovunque sul ciglio stradale.
Anche i villaggi sono cumuli di catapecchie. È nuvoloso
e la temperatura non supera i 7 °C. Non c’è
traffico. Nella zona di Acinsk l’orrore tocca il suo
apice. Stabilimenti industriali che eruttano fumi nerastri,
un abitato da “day after” che neppure il più
fantasioso scenografo potrebbe inventare. È difficile
persino descrivere quanto vediamo tanto è improbabile
per la nostra mentalità coniugare in un tutt’uno
il grigiore, la sporcizia, il decadimento, l’assoluta
indifferenza per tutto ciò che ci circonda e il lasciare
andare inesorabilmente ogni cosa alla malora. Un orribile
disastro. Ci vorrebbe una immensa e pietosa gomma per cancellare
questi obbrobri e rifare tutto da capo. Per fortuna siamo
in Siberia e queste immagini sono mitigate dalla presenza
di betulle e abeti ai margini della strada. Ma basta fermarsi
in uno dei rarissimi parcheggi per ripiombare nella sporcizia.
Le aree di sosta sono tutte invariabilmente delle vere e
proprie discariche. Non si vedono neppure animali in questa
terra che dovrebbe esserne ricchissima. Solo corvi, e in
certi tratti neppure quelli. Ci fermiamo nei pressi di Emelianovo,
30 chilometri a ovest di Kranoiarsk, presso un Bar-Caffé.
Un locale nuovo e pulito dove ceniamo bene. Diluvia.
9/05 – Emelianovo > Krasnojarsk
> Kuskun – km 190 + 6 ore
Oggi splende un bel sole anche se la temperatura non supera
il grado. Arriviamo prestissimo a Krasnoiarsk. C’è
un notevole dispiegamento di forze di polizia, probabilmente
legato alle celebrazioni del 60° Anniversario della
vittoria nella Seconda Guerra mondiale
che cade proprio oggi. Parcheggiamo a due passi dal centro
e ci immergiamo nel flusso delle tantissime persone dirette
alla sfilata commemorativa. Krasnoiarsk ci appare decisamente
meglio delle altre città. Una periferia molto più
pulita e dignitosa, strade ben asfaltate, una bella piazza
circondata da moderni edifici sullo Jenisej, l’immane
fiume siberiano che oggi splende di un intenso blu. Le strade
sono inondate da canti patriottici trasmessi da altoparlanti
a tutto volume. Veterani col petto scintillante di medaglie
si mischiano a due ali di folla, ben ordinata sul marciapiede,
che accoglie con applausi l’arrivo di americanissime
majorette con tamburi. Poi passa quasi un’ora senza
che nulla accada. D’un tratto, in lontananza, si affacciano
due carri armati che, dopo aver percorso affiancati un centinaio
di metri, svoltano a sinistra lasciando il pubblico esterrefatto.
Pensando
sia quello il percorso della sfilata, la folla rompe l’allineamento
e, ignorati i numerosi poliziotti che si sbracciano nel
tentativo di fermarla, come un sol uomo si dirige verso
la strada imboccata dai due corazzati. La confusione è
totale. Migliaia di persone si accalcano correndo verso
non si sa bene dove. Anche noi seguiamo la corrente. Solo
la comparsa di due elicotteri, che volano a bassa quota,
fanno capire che il percorso della sfilata si trova sulla
strada appena lasciata. E tutta le gente cerca di tornare
alle primitive posizioni in un caotico e divertente dietrofront.
Chissà se succedeva così anche durante il
Regime? La sfilata riprende. Passano al passo dell’oca
i reparti speciali, i paracadutisti, i giovani allievi di
una Accademia militare che intonano una canzone cadenzata
sulla marcia. Quindi sopraggiungono le Uaz con le bandiere
di guerra dei vari reggimenti, i blindati in uno sferragliare
assordante, enormi trattori con grossi obici e infine i
moderni lanciarazzi Katuscia. Molti reparti indossano le
divise dell’epoca. Al termine della parata una festosa,
gigantesca confusione s’impadronisce della città.
I civili si mischiano ai militari e ai poliziotti in un
unico abbraccio caotico. Anche noi ci uniamo a quell’abbraccio:
quando mai in Russia ci si può fotografare con un
Kalashnikov in mano? E quando mai si possono scattare foto
o riprendere soldati e poliziotti? Ma le sorprese a Krasnoiarsk
non sono finite. Passeggiando lungo le rive dello Jenisej
alla ricerca di una spiaggetta per raccogliere sabbia, ci
imbattiamo in un tale che ci conduce ad un club privato
sul fiume, dove alcune persone stanno facendo il bagno.
È il Club dei Trichechi, formato
da un gruppo di ardimentosi che non hanno paura di sfidare
le gelide acque dello Jenisej anche d’inverno. Veniamo
accolti in modo straordinariamente caloroso con tè
e dolci. Una pediatra dell’università cittadina,
che parla un po’ d’inglese, fa gli onori di
casa spiegando la storia e le finalità del club.
Quindi, con un invito che sa quasi di sfida, propone un
bagno nel fiume. Sandra e Mariarosa accettano e così,
infilati i costumi, ricevono il battesimo del club immergendosi
nella acque la cui temperatura è di 3 °C (sic!)
Poi una bella sauna ritemprante ed infine un altro giro
di dolci e tè, compresi vino e una colomba offerti
da noi, prima di prendere commiato da quella allegra brigata.
È proprio vero, i russi sono dei gattoni diffidenti
pronti a graffiarti, ma se solo ti avvicini per accarezzarli,
si accoccolano per fare le fusa! Ripartiamo alla ricerca
di una seggiovia che dovrebbe portare allo Stolby, un parco
naturale fra rocce vulcaniche, ma dopo lunghe giravolte
riusciamo solo ad approdare alla zoo. Un orribile lager
in cui gli animali sono costretti in gabbie troppo piccole.
Brevissima visita, quindi, sempre alla ricerca della seggiovia,
infiliamo una valletta fra i monti che s’innalzano
sulla riva orientale dello Jenisej. È una zona pittoresca,
piena di dacie ben tenute e qualche radura sulla riva di
un fiumiciattolo dove intere famigliole e gruppi di giovani
fanno picnic. Dopo una quindicina di chilometri la strada
finisce e della seggiovia nessuna traccia. Decidiamo di
lasciare Krasnoiarsk e avviarci verso Irkutsk. Ci fermiamo
per la notte presso un benzinaio nei paraggi di Kuskun,
ad una cinquantina di chilometri dalla città.
10/05 – Kuskun > Razgon –
km 379 + 7 ore
Questa mattina nevica e la temperatura esterna è
di meno 1,9 °C. Il terreno è ormai coperto di
qualche centimetro di neve, ma la strada è pulita.
Siamo comunque contenti di questo capriccio del tempo che
ci permette di avere un’idea della Siberia invernale.
A Kansk, la nevicata diventa molto più fitta e anche
l’asfalto comincia a imbiancarsi. Tuttavia si procede
senza particolari difficoltà sino a quando non compaiono
lunghi tratti di strada non asfaltata ricoperti di fanghiglia
rossastra nella quale i mezzi quasi galleggiano. È
la rasputstva, il fango russo, quello che ha fermato i carri
armati tedeschi, e che si ripresenta ad ogni primavera e
autunno. Un fango sabbioso, molliccio e tenero, che inghiotte
i pneumatici. Le banchine laterali sono una trappola anche
per veicoli relativamente pesanti. I TIR vi affondano letteralmente
e, in caso di guasto, sono costretti a fermarsi in mezzo
alla carreggiata. Procediamo così, a velocità
ridotta, in un alternarsi di asfalto solcato da voragini
che si continuano in corrugamenti simili a montagne, ed
eterni tratti di strada senza manto dove le ruote sguazzano
in un mare di fanghiglia. Il bordo stradale è indistinguibile.
Viaggiamo al centro della carreggiata. Fortunatamente il
traffico è molto scarso. Ogni tanto si supera qualche
camion affondato sino ai mozzi. La tortura continua sino
a Razgon, una località ben conosciuta dai camionisti
diretti a Irkutsk sulla M53. Qui, ci si para davanti una
colonna di TIR fermi. La strada corre parallela alla Transiberiana
e in una semicurva in salita un grosso TIR blocca il traffico,
immerso nel fango sino al pianale. Sono le 16,30. Sandra
e Luciano, infilati gli stivali, vanno a dare un’occhiata.
Ciò che appare
ai loro occhi è irreale, allucinante: 200 metri di
fango, che un aratro impazzito ha trasformato in un campo
di battaglia della Prima Guerra mondiale, sono ciò
che resta della M53. Nessuno avrebbe l’ardire di riconoscere
una strada in quel mare di fango in tempesta. Ma è
la M53. Mostrando l’atlante stradale, chiediamo ad
alcuni camionisti se le strade secondarie siano una alternativa,
ma quelli ci rispondono che non solo sono peggio, ma che
talune sono addirittura chiuse. Non ci resta che tentare
di passare attendendo il nostro turno. Continua a nevicare,
anche se con minor spinta. Ogni autista s’arrangia.
Nessuno dei curiosi, e sono parecchi, dà una mano.
C’è un solo badile, uno solo (sic!), e due
o tre traversine della ferrovia che, unite a qualche asse
di legno, vengono utilizzate dagli autisti delle auto giapponesi
per districarsi nel passaggio. Si formano grovigli che sa
solo il Cielo come riescano a sciogliersi. I camion grossi
sono bloccati, quelli medi tentano di passare ai lati del
TIR affondato, ma restano al loro volta prigionieri della
melma. Un camioncino, che trasporta sul pianale un piccolo
furgone su cui è posta un’altra auto, cerca
di infilare sotto le ruote motrici le traversine auto-sollevandosi
con la gru che porta dietro alla cabina. Ci riuscirà
dopo un’ora e più di lotta con l’aiuto
di un grosso trattore comparso dal nulla. Poi è la
volta del TIR affondato in mezzo alla strada. Sono TIR da
450 quintali. I cavi d’acciaio saltano come fili da
ricamo e il trattore affonda a sua volta nel fango. È
solo con l’intervento di un altro grosso camion che
la morsa fangosa viene vinta. Davanti a noi, in testa alla
colonna, si muove un altro TIR che però s’inabissa
inesorabilmente dopo pochi metri. Ricomincia l’opera
del trattore e del camion. Si va avanti così, camion
dopo camion. In media occorre un’ora e mezza a veicolo.
È ormai passata mezzanotte da un pezzo, quando anche
il TIR che ci precede viene inghiottito in quella palude
sulla M53. È un buio pesto. Decidiamo di riaccodarci
alla fila e attendere la luce del giorno per tentare il
passaggio. Accanto a noi sferragliano i convogli della Transiberiana.
È un traffico continuo in un turbinio di neve.
11/05 – Razgon > Ceremcov
– km 464 + 7 ore
Ci svegliamo
all’alba. Abbiamo dormito poco ma bene, nonostante
il continuo passaggio dei treni e delle auto che hanno superato
la trappola di fango. Continua a nevicare e il paesaggio
è completamente invernale. Sandra parte per una ricognizione.
È tutto come ieri notte e non vi sono segni o tracce
di interventi “ufficiali” per migliorare la
situazione. I camion sono fermi in paziente attesa. Il trattore
cerca di spianare con la pala le montagne di fango e gli
spaventosi solchi lasciati da ogni TIR che viene estratto
dalla palude. E in quei varchi, larghi non più di
due metri, piccole colonne di tre o quattro auto tentano
la sorte. Ma più della metà di esse si pianta
e deve essere tirata fuori dal trattore. Comunque la situazione
sembra più affrontabile: se ce la fanno le auto,
forse ce la faremo anche noi. Partiamo e, superata la colonna
di TIR, ci stiamo apprestando ad attraversare il mare di
fango quando due camion, provenienti in senso inverso, occupano
il passaggio e ci bloccano affondando loro stessi. Nulla
da fare. Dobbiamo attendere che vengano rimorchiati fuori.
Non avremo miglior fortuna quando toccherà a noi,
ma con dieci dollari a camper il trattore ci trarrà
dagli impicci. Felici di lasciarci alle spalle quella trappola,
ripartiamo cercando di recuperare il tempo perduto. 18 ore
per fare 200 metri. Da quel punto in poi, la M53 alterna
tratti di buon asfalto a tratti sterrati, almeno tre o quattro,
lunghi una ventina di chilometri ciascuno. Qui, i nostri
mezzi avanzano in una fanghiglia grigio-rosso-giallastra
alta una decina di centimetri, ma il fondo sottostante è
compatto e solo in alcuni punti si corre di nuovo il rischio
di impantanamento. Continua a nevicare e procediamo fra
fitte foreste imbiancate attraversando villaggi semiaddormentati,
tutto sommato abbastanza graziosi. In uno di questi ci fermiamo
per acquistare il pane e, con nostra sorpresa, troviamo
nel magazin, due donne intente a preparare una specialità
tipica della Siberia: una specie di ravioletto, ripieno
di carne, del tutto simile ai nostri tortellini. Ne acquistiamo
un chilo. Nel primo pomeriggio cessa di nevicare ed anche
la strada migliora notevolmente. Il panorama è abbastanza
mosso, con boschi di betulle alternati a campi di stoppie,
rari insediamenti industriali e qualche cittadina con la
solita caratteristica mancanza di indicazioni stradali.
Per decine e decine di chilometri avanziamo nel fumo degli
incendi provocati per bruciare le stoppie. In qualche punto
vecchissimi trattori stanno arando avvolti da stormi di
corvi che si confondono col colore della terra. Sono le
fertilissime terre nere, dove un’aratura profonda
solo 10 – 15 centimetri è più che sufficiente
a dare abbondanti raccolti. Colpisce la mancanza di fauna.
Non si vedono i migratori che ci si sarebbe aspettato, a
dispetto dei tantissimi laghetti e stagni e di quella enorme
palude che diventa la Siberia in primavera. La natura stessa
appare “ammalata”: chilometri e chilometri di
scheletri anneriti di betulle spuntano come fantasmi da
acquitrini grigiastri. Si ha la sensazione di una assoluta
mancanza di rispetto per la natura e di un suo uso che ne
diventa un abuso. Alle 19 ci fermiamo nel parcheggio di
un ristorantino nei pressi di Ceremcov, in compagnia di
due autisti che si trovavano con noi nel “fango”.
Da qui in poi, ci assicurano, la strada è tutta asfaltata.
Due chiacchiere e un brindisi con foto a ricordo della comune
avventura nella rasputitza.
12/05 – Ceremcov > Irkutsk
> Listvjanka – km 385 + 7 ore
Oggi splende un bel sole anche se non c’è più
di un grado. La strada che ci porta a Irkutsk è buona
e si snoda tra boschi e coltivi. In breve entriamo in una
città che si presenta molto bene con una parte periferica
dignitosa e non con il solito squallore. Il fiume Angara
inoltre, la taglia a metà e permette
un facile orientamento. Così troviamo subito parcheggio
davanti alla cattedrale Bogoyavlensky dalla movimentata
architettura e dai vivaci decori. All’interno vi è
un ciclo di affreschi recenti fra cui un notevole Inferno.
Si può filmare e fotografare. Poco lontano sorge
la cappella cattolica polacca, dove uno sgarbato custode
ci vieta, chissà perché, l’ingresso.
Dall’altra parte della strada, si trova la chiesa
Spasskaya ora trasformata in piccolo museo etnografico.
Tutta questa vecchia area storica è schiacciata dall’enorme
edificio grigio dell’ex quartiergenerale del Partito
e oggi sede della Duma locale. Dietro al palazzone, sull’Angara,
c’è il Sacrario ai caduti della Seconda Guerra
mondiale cui prestano guardia d’onore ragazzine e
ragazzini adolescenti in divisa paramilitare. Assistiamo
al cambio della guardia effettuato con molta partecipazione
al passo dell’oca. Più avanti un altro gruppo
di giovani si sta esercitando a quel genere di marcia. Sul
lungofiume lo sguardo spazia ampio sulla città, ovviamente
non mancano ciminiere e varie brutture industriali, tra
le quali un orribile edificio proprio a fianco della cattedrale.
La piazza davanti alla Duma ha dimensioni veramente sovietiche:
è talmente grande che per raggiungere l’opposta
Ulitza Lenina bisogna prendere… le ferie. Ma in complesso
è piacevole così imbandierata per le cerimonie
del 60° della guerra. La stazione di Irkutsk è
un gioiello nei suoi tenui colori pastello. È tenuta
molto bene ed emana un misterioso fascino di avventura.
Nel primo pomeriggio visitiamo il museo siberiano con la
sua notevole raccolta etnico-storica le cui spiegazioni
sono purtroppo tutte in russo. In compenso anche qui si
può filmare e fotografare. Passeggiando per la solita
strada del centro, Ulitza Marxa, colpisce la vivacità
e la presenza di negozi pieni di merci, di pittori che espongono
e vendono
le loro opere sotto lo sguardo quasi compiaciuto di Lenin.
Da un barbuto artista compriamo alcuni quadretti a cifre
ridicole. Insomma la definizione di “Parigi siberiana”
ben s’attaglia a Irkutsk. Ed è curioso notare
come sul lungo fiume sia stata eretta anche una statua allo
zar Alessandro III. I tempi cambiano. Facciamo due chiacchiere
con un gruppetto di mormoni americani stupiti della nostra
presenza quanto noi lo siamo della loro. Sono qui per fare
proseliti: la Russia è ora terra di conquista. Lasciamo
Irkutsk per il Baikal. Nessuna difficoltà a uscire
e a trovare la strada per Lisitvjanka. Attraverso belle
foreste di conifere e betulle si costeggia l’Angara,
a tratti ancora ghiacciato, in continui saliscendi che mostrano
scorci suggestivi nella luce del tardo pomeriggio. In breve
siamo al lago. Gran parte della superficie è ancora
ghiacciata e l’acqua libera ha l’aspetto e il
colore che solo la temperatura di poco superiore allo zero
riesce a creare. Listivjanka, a dispetto di quanto affermano
le guide, non è granché. Anzi è proprio
bruttina. La spiaggia, sassosa, è piena di cocci
di bottiglie e di rifiuti di ogni genere, fra cui anche
la carogna di un cane. Vi sono ancora i resti anneriti e
bruciacchiati di fuochi d’artificio sparati chissà
quando. Rottami di legno e ferro ovunque, cartacce e plastica.
Anche le casette di legno non brillano per bellezza e manutenzione.
Nuovi edifici in mattoni e altri in via di costruzione offendono
la vista con i loro colori rosa shocking. Hanno la foggia
di piccoli castelli, con torri dal tetto conico. Stonano
alquanto in riva al lago. Ci sono ubriachi ovunque. Qualche
banchetto vende souvenir ad un prezzo triplo di quello praticato
nel negozio del museo siberiano a Irkutsk. E questa
sarebbe “vocazione turistica”? Dalla sommità
di una ciminiera con tanto di falce e martello ornamentali,
fuoriesce una fumana nera a due passi dalla spiaggia. Perché
il “Socialismo” deve essere necessariamente
così brutto? Tre o quattro banchetti offrono pesce
affumicato nei pressi del molo cui sono attraccati gli scafi
colorati di alcuni grossi battelli. Le crociere sul lago
ancora non si fanno, troppo ghiaccio. 200 metri al largo,
le rovine di quello che era un altro punto di attracco:
un ammasso informe nerastro di travi di legno stritolate
dall’inverno. Ci parcheggiamo in un piazzale dove
incontriamo un camion tedesco tipo “overland”
di Brema. Sta facendo il giro del mondo. Ci scambiamo le
impressioni di viaggio con l’equipaggio finendo col
parlare della polizia russa. Loro hanno pagato qualche dollaro,
noi ancora niente, per ora. Nel piazzale, in terra battuta,
i resti di una pubblica toelette: un fossa di 7 –
8 metri di lunghezza per 3 di larghezza e fonda altri due,
piena di immondizia. Ci sono ancora le assi con i fori dove
le gente si accomodava per le fisiologiche necessità.
È un bel biglietto da visita. Tuttavia, passeremo
la notte in quel piazzale. Per fortuna un bellissimo tramonto
ci fa dimenticare per un po’ lo sconcio del luogo.
Un ultimo tocco di tristezza: all’ingresso del paese,
tre orsi ingabbiati in una prigione troppo stretta per la
loro mole, fanno da richiamo turistico infilando il testone
in una specie di imbuto per afferrare il cibo che viene
loro porto così da rendere possibile fotografarne
il muso. Cose da medioevo. Non facciamo nessuna foto.
13/05 – Listivjanka > Timiliui
– km 410 + 7 ore
Fa freddo questa mattina e il termometro segna a malapena
1 grado. Un
solicello malato cerca di bucare una foschia che si trasformerà
in un noioso grigio per tutta la giornata. Tornando verso
Irkutsk, visitiamo un museo open-air di architettura abitativa
russa locale. È molto grazioso e ben tenuto. Vi passiamo
l’intera mattinata. Di fatto è una ricostruzione
di alcuni tipici villaggi dell’area del Baikal. Al
cimitero apprendiamo una curiosità. I corpi delle
persone decedute durante l’inverno, vengono conservati
sino al disgelo in una specie di camera mortuaria e inumati
solo a primavera. Una cantante folk ci canta un’armoniosa
canzone accompagnandosi con uno strano strumento a corda,
che è un misto fra una chitarra e un’arpa.
La voce è veramente bella anche se la canzone è
molto triste. Dopo queste bucoliche visioni, lasciamo il
museo
e torniamo alla dura realtà dei villaggi siberiani
odierni. La strada verso Ulan Udé si allontana dal
lago inerpicandosi fra i monti in un continuo saliscendi
curvilineo. Il fondo è discreto. Raggiunto un passo
a circa 1000 metri di altitudine, dove c’è
ancora neve ai bordi della carreggiata, si scende a precipizio
verso il Baikal che appare quasi all’improvviso da
un tornante. Ci fermiamo a un belvedere che domina dall’alto
il lago. Lo spettacolo è deprimente. Sotto, c’è
il misero e tetro villaggio di Kultuk con un enorme complesso
industriale che deturpa un panorama già di per sé
non esaltante. Mentre stiamo fotografando, con la coda dell’occhio
notiamo un grosso e lungo fagotto di stracci poco sotto
il muretto che separa il tornante dalla scarpata. Ci avviciniamo
e, con stupore, riconosciamo il cadavere di un uomo (sic!).
Siamo allibiti. È proprio un morto, freddo e stecchito.
Ci consultiamo sul da fare. Avvisare la polizia? Avvertire
il personale
del piccolo bar che si trova qualche decina di metri più
in alto? Decidiamo di allontanarci il prima possibile in
quanto, non parlando la lingua e conoscendo la polizia russa,
avremmo solo delle beghe. Tanto più che il morto
è morto, e il nostro intervento non potrebbe di certo
migliorarne la condizione. Così ripartiamo senza
troppi rimorsi. La strada, per brevi tratti pessima, corre
assieme alla Transiberiana costeggiando il Baikal, ma il
lago, che da questa sponda è completamente ghiacciato,
non si vede molto. Vi sono rarissimi punti di sosta, tutti
rigorosamente sporchi, pieni di rifiuti di ogni genere e
infestati da grossi topi. I villaggi che attraversiamo sono
deprimenti, stretti fra la Transiberiana e la M55. Case
fatiscenti e scheletri di industrie in rovina salutano il
nostro passaggio. Entriamo nella Repubblica della Buriatia
e, superato l’abitato di Timiliui, facciamo sosta
per la notte in un bel parcheggio con ristorantino ricavato
in un vagone ferroviario. Il luogo è carino, ma infestato
da fameliche zanzare. Siamo nel delta del fiume Selenge,
un immissario del Baikal che nasce in Mongolia. La meta
si avvicina.
14/05 – Timiliui > Ulan Ude > Kiakta –
km 370 + 7 ore
Costeggiando il Selenge e accompagnati dall’onnipresente
Transiberiana, ci avviamo verso Ulan Ude, la capitale della
Repubblica della Buriatia.
Qui le condizioni appaiono migliori, c’è più
pulizia e la polizia è decisamente più affabile.
Per la verità, in tutta la Siberia la polizia è
cortese e non pare così corrotta come nella Russia
europea. Molti posti di blocco fissi sono deserti e in quelli
presidiati si passa a volte senza neppure un accenno di
controllo. All’entrata di Ulan Ude poi, dove ci infilano
nel camper anche un cane antidroga, finisce tutto in allegria
con foto ricordo dei poliziotti uno dei quali, agente delle
forse speciali Omon, presta addirittura il suo mitra a Mariarosa.
Stranezze della Siberia. Anche la capitale buriata si presenta
bene. In breve parcheggiamo nella vasta piazza che ospita
la testa di Lenin più grande dell’ex URRS.
Il centro, con i suoi vecchi edifici ottocenteschi, memoria
dell’epoca gloriosa dei commerci del tè, è
gradevole. Passeggiamo nella solita Ulitza Lenina pedonalizzata
dove, fra i vari bei negozi, spicca quello con la scritta
ItalModa. All’interno in effetti ci sono prodotti
italiani, ma il personale è tutto buriato. La gente
è in gran parte di origine mongola. È cordiale
e sorridente, a differenza dei russi che non riescono a
scrollarsi dalla faccia la perenne seriosa imbronciatura.
E non a caso gli ubriachi che incontriamo, a vari livelli
di etilismo, sono in genere russi. La ulitza scende dolcemente
verso la cattedrale che si staglia sullo sfondo del cielo
grigio con i suoi colori bianco, blu e oro. È in
via di restauro e non si può entrare. Facciamo colazione
nella pizzeria Venezia, gestita da buriati che fanno una
pizza tutto sommato discreta. Lasciamo Ulan Ude e ci avviamo
verso il confine mongolo seguendo il corso
del Selenge. Il paesaggio è una collinosa steppa
ondulata, ricoperta dall’erba ancora bruciata dal
gelo invernale. Le montagne sono imponenti dune sabbiose
dal profilo dolce e arrotondato, che si perdono davanti
ai nostri mezzi nel nulla. I villaggi sono molto dignitosi
e puliti con mucche e cavalli che pascolano liberi. La strada
è abbastanza ben tenuta, con cumuli di sabbia ai
bordi. Evitiamo accuratamente la cittadina di Sino-ozersk
dove sono frequenti le rapine, come ci ha consigliato di
fare un camionista al parcheggio di ieri. In prossimità
dell’ultima cittadina russa, compaiono fitte foreste
di conifere e la strada si inerpica fra i monti in un susseguirsi
di curve e tornanti il cui fondo porta ancora i segni del
recente disgelo. In certi punti si viaggia su di una sola
carreggiata. Il paesaggio è molto suggestivo, anche
perché è spuntato un bel sole. All’improvviso
compare uno strano rumore dal motore dell’Hymer, come
un soffio aspirato che si accentua dando gas. Non riusciamo
a capire che sia successo. Tuttavia il motore funziona e
raggiungiamo Kiakta, il confine con la Mongolia. Sono ormai
quasi le 18 e la frontiera chiude a quell’ora per
riaprire domani alle 9. Chiediamo ospitalità ad un
benzinaio a poche centinaia di metri dal confine e lì
passiamo la notte. Il tempo peggiora rapidamente e inizia
una tempesta di pioggia e vento. Quanto al “soffio”
del motore, se ne riparlerà a Ulaan Baatar.
15/05 – Kiakta > Ulaan Baatar
– km 385 + 7 ore
Ci alziamo presto, e alle 8 siamo in frontiera. Preceduti
da qualche sgangherata auto con targa mongola, ci affianchiamo
a due camion trasporto tronchi attendendo che alle 9 si
apra il minuscolo cancello. In quell’ora di attesa
succede di tutto. Auto e camioncini mongoli, passando fuori
strada, su cordoli di aiuole, fossi e quant’altro
sia stato posto per cercare di incanalare in modo ordinato
i veicoli, ci sopravanzano creando un’ammucchiata
indescrivibile di mezzi a ridosso del cancello. Ma il destino
ha deciso diversamente. All’apertura della frontiera,
Sandra a Luciano vanno a indicare i nostri camper al soldato
e questi molto gentilmente fa segno di aspettare cinque
minuti.
Fa passare due auto russe e quindi ordina a tutta la massa
di veicoli che ci precede di arretrare. Quanto accade è
comico: l’intero groviglio di auto e camioncini arretra,
con mezzi che si toccano, che si incastrano fra loro nei
modi più assurdi per cercare di mantenere la posizione.
Ma alla fine si apre un corridoio attraverso il quale passano
i nostri mezzi. Come e perché ciò sia accaduto
non lo sapremo mai. Una cosa è certa, non abbiamo
allungato alcun dollaro al soldato. Chissà, forse
è bastata la scritta Italia in russo? In frontiera
i funzionari russi sono gentili più della loro pignoleria.
Ci mettono a disposizione anche un interprete che parla
inglese. Quindi è la volta della frontiera mongola.
Qui, tutti sono sorridenti e cortesi e masticano qualche
parola di inglese. Ci accompagnano nei vari uffici e riempire
moduli su moduli. E alla fine siamo fuori. Sono le 12,30,
quasi un record, considerando che c’è stato
chi ha impiegato anche più di 24 ore. La strada che
conduce a Ulaan Baatar è ottima. Ci immergiamo nel
paesaggio mongolo: una steppa ondulata da cui si innalzano
montagne dai profili arrotondati, mandrie di mucche e cavalli
al pascolo, pecore e bianche gher in lontananza. I colori
sono ancora quelli del tardo inverno, ma fra il giallo dell’erba
compaiono già chiazze di un fresco e brillante verde.
Sugli alberi le gemme delle nuove foglie. Tutto è
molto pulito. Incontriamo i primi ovoo. Arriviamo a Ulaan
Baatar (U.B. per i suoi abitanti e per noi occidentali)
alle 18. La periferia è eterna, ma non così
orrenda come quelle russe. C’è un traffico
congestionato, privo di regole, caotico. Tutti si affannano
a sorpassarsi l’un l’altro per poi incunearsi
in giganteschi grovigli ai semafori. I clacson suonano in
concerto. Ci fermiamo al Palazzo del Opera, nell’enorme
piazza del Parlamento in attesa di Batbayar, l’agente
turistico presso cui abbiamo noleggiato le jeep per muoverci
in Mongolia. Egli ci ha anche riservato un parcheggio di
tutto rispetto nel centro città. Dopo poco infatti,
ci ritroviamo fermi nell’area riservata delle ambasciate
di Polonia e Francia, in cui si trova anche il Corpo di
pace ONU. È un’area protetta e sorvegliata
dove ci viene fornita pure la corrente elettrica e l’acqua.
Meglio di così? Festeggeremo in un ottimo ristorante
mongolo. Sino a qui abbiamo percorso 11.073 chilometri.
16/05 –
30/05 - Mongolia
Il nostro programma prevede un volo nel deserto
del Gobi da U.B. Qui, con un pulmino UAZ la visita della
Valle delle Aquile con sua la Gola Ghiacciata, quindi una
puntata alle Dune cantanti ed infine Bayanzag, il cimitero
dei dinosauri. Dormiremo in campi di gher e siamo accompagnati
da un interprete. Al ritorno a UB, ci aspettano due UAZ
con le quali ci dirigeremo verso il Lago Khogsvul attraverso
gli altopiani nord-occidentali, e successivo rientro a Ulaan
Baatar passando per il parco del vulcano Khorgo Uul e il
lago Bianco, facendo poi tappa a Kharakorim, l’antica
capitale dell’Impero mongolo. Se si eccettuano i 385
chilometri che separano quest’ultima da UB, è
un percorso tutto fuoristrada (2.500 km), lungo piste che
spesso non sono nemmeno tali, con guadi e passi che metteranno
a dura prova non solo le nostre ossa, ma anche le indistruttibili
e scomodissime UAZ. Vedremo mandrie di cavalli e cammelli
bactriani (a due gobbe), yak, aquile, avvoltoi, gru, lupi
e un infinità di uccelli di cui non sapremo riconoscere
la specie. Sarà un viaggio scomodo, duro attraverso
gli immensi e affascinanti vuoti della Mongolia. Il
diario di questa avventura è trattato a parte in
altra sede.
31/05 – Ulaan Baatar > Kiakta
– km 365 + 7 ore
Oggi inizia il ritorno verso casa. È una fredda giornata
a UB, con vento e grossi nuvolosi neri che ogni tanto scaricano
pioggia. Il traffico è ancora scarso. Abbiamo trovato
la causa del “soffio” nel motore dell’Hymer:
il tubo di aspirazione dell’aria del turbo è
stato tagliato dal radiatore. Lo abbiamo riparato con nastro
adesivo e, a maggiore protezione, abbiamo rivestito il nastro
con stoffa coperta a sua volta da una lattina di birra tagliata
a metà (questa riparazione si rivelerà molto
efficace permettendoci di giungere sino a casa senza dover
sostituire il tubo con quello nuovo che nel frattempo ci
siamo fatti inviare a UB dall’Italia via aerea con
DHL). All’uscita dalla città dobbiamo fermarci
per fissare nuovamente il tubo del turbo con fascette metalliche,
giunte anch’esse dall’Italia, in quanto le fascette
di plastica messe in precedenza hanno ceduto al calore del
motore. Un operazione di pochi minuti, quindi via verso
la frontiera russa. Il tempo migliora e con un bel sole
caldo siamo al confine verso le 14. Qui, la situazione è
molto peggiore dell’andata: file di furgoni e auto
mongole si accalcano per centinaia di metri prima del cancello
lasciando presagire tempi eterni di passaggio. Ma anche
questa volta
le cose si mettono al meglio. Seguendo un pulman di linea
russo sopravanziamo l’ammasso di veicoli e ci portiamo
a ridosso dell’entrata. Andiamo a parlare con un militare
e, dopo una ventina di minuti, riusciamo a entrare. Le formalità
mongole sono celeri, mentre dalla parte russa i funzionari
s’impuntano sul luogo di uscita dalla Russia da segnare
sul foglio di importazione temporanea del camper. Vogliono
farci uscire a Smolensk, considerato che abbiamo anche il
visto per la Bielorussia. Spieghiamo loro che il nostro
visto di affari ci consente di uscire da qualsiasi località
e che non intendiamo essere vincolati alla frontiera bielorussa.
Niente da fare. Come negli interrogatori del vecchio Nkvd,
applicano il metodo della “cinghia”: al primo
funzionario se ne sostituisce un secondo che rincomincia
con le solite domande, con i soliti dinieghi e con l’uscita
a Smolensk, e poi un terzo e così via sino a quando
l’ultimo, constatato che manca un quarto d’ora
alla chiusura della frontiera e che Sandra non demorde,
decide segnare come località di uscita… il
nostro indirizzo di casa (sic!). E così, dopo un’ispezione
doganale che sa più di curiosa occhiata all’interno
dei camper, fra strette di mano e sorrisi lasciamo la frontiera
ed entriamo in Kjakta dove passeremo la notte dopo aver
sostituito da un gommista un pneumatico del Benimar nel
frattempo sgonfiatosi.
01/06 – Kjakta > Ulan Ude
> Shamanka – km 598 + 7 ore
Kjakta è
una graziosa cittadina, molto pulita anche se le vacche
passeggiano per le vie del centro. Gli edifici, fra cui
un grande chiesa ottocentesca in rovina, ne denotano la
passata ricchezza di importante centro sulla via del tè.
Tuttavia l’abbandono e l’incuria in cui versano
talune aree ci ricordano che siamo tornati in Russia. La
città è piena di caserme e di militari. La
polizia, molto numerosa, comunque non ci degna di attenzione.
Le betulle hanno messo già tutte le foglie e il paesaggio
è un rigoglio di colori primaverili. Lungo la strada
incontriamo anche una marmotta e due anatre mandarine. Tuttavia,
anche se l’erba cresciuta ai bordi della carreggiata
nasconde in parte i soliti rifiuti, e se gli alberi in fiore
ingentiliscono il panorama ravvivando i villaggetti, non
riusciamo a stemperare più di tanto la pessima impressione
che abbiamo ricevuto all’andata. Superata Ulan Ude,
arriviamo al Baikal. Il lago è privo di ghiacci ora,
ma è sempre irraggiungibile se non attraversando
i binari della Transiberiana. Oltrepassiamo miseri villaggi
che né il bel tempo né le fioriture primaverili
riescono ad umanizzare. A Baikalsk, una lunga fila di cartelli
pubblicizzano pateticamente la fauna locale: lupi, orsi,
cervi, ecc. Al tornante sul belvedere il cadavere è
stato rimosso. Ci lasciamo alle spalle il lago senza eccessivi
rimpianti e facciamo sosta per la notte nel parcheggio di
un ristorante, nuovo e pulito, a circa 50 chilometri da
Irkutsk, nei pressi della deviazione per Shamanka. Cena
al ristorante.
02/06 – Shamanka > Irkutsk > Nizdeudinsk
– km 630 + 6 ore
È una bella giornata e la Siberia ci appare più
carina col vestito primaverile, ma i paesi che attraversiamo
hanno sempre lo stesso squallore. La giornata è movimentata
da divertenti episodi come il bagno di diesel che capita
a Maurizio durante un rifornimento oppure quello di un automobilista
distratto che parte senza aver tolto la pistola del carburante
dal serbatoio. Ricompaiono i lunghi tratti di strada senza
asfalto, ma per fortuna il fango è quasi secco e
i pericoli di impantanamento sono molto limitati. Comunque
la guida è dura e non consente distrazioni. Ci fermiamo
per la notte nei paraggi di Nizdeudinsk, in un’area
con ristorantino sul limitare di un bosco, dove un camion
è imprigionato fino ai mozzi nel fango e il terreno
tutto attorno mostra altre profonde ferite lasciate da TIR
che si sono già trovati in quella scomoda situazione.
Noi siamo su una zona solida. Dopo cena facciamo una passeggiata
al vicino villaggio. Passano un sidecar e due Fiat russe
scassate. Al limitare delle case ci ferma un tizio che con
insistenza ci invita a bere qualcosa a casa sua Siamo perplessi,
ma la curiosità di vedere cosa si cela al di là
degli steccati e delle porte è grande e così
scarpiniamo fino all’ultima costruzione in cui abita
il nostro ospite. Entriamo e lo spettacolo offerto è
rivoltante. In un sudiciume inverosimile, dove piatti sporchi
e avanzi di cibo sono sparsi ovunque, si apre la stanza
giorno in cui si trovano tre donne. Una di queste, una virago
di un metro e ottanta per un centinaio di chili, salta sulle
ginocchia di Luciano con intenzioni concupiscenti inequivocabili.
Altro che timide Rusalki. (Luciano aveva già incontrato
la donna al bar e le aveva scattato una foto polaroid assieme
ai due piccoli nipotini, e forse è questo il motivo
dell’invito) Rifiutiamo il terzo giro di vodka e l’invito
a passare lì la notte. Ci sarebbe mancato solo quello.
A fatica riusciamo a sottrarci da quell’insistente
ospitalità. Quando siamo in strada è un buio
pesto e i camper sono molto lontani. Senza torcia e con
tutto quel fango sarà un’impresa raggiungerli.
Ma la fortuna ci aiuta, e per caso otteniamo un passaggio
da un rottame di 124 russa il cui conducente ha un alito
altamente infiammabile. Ci dice di essere il sindaco del
villaggio, anche se data la vodka che ha in corpo è
difficile credergli. Protesta per lo stato delle strade
dicendo che è tutta colpa di Putin. Quando siamo
di nuovo ai nostri mezzi, gli offriamo un bicchiere di vino
con la consapevolezza che potrà solo diluirgli il
tasso alcolico nel sangue.
03/06 –
Nizdeudinsk > Krasnojarsk > Divnogorsk –
km 575 + 6 ore |
|
Questa mattina il termometro
segna 4 gradi sottozero e le pozzanghere attorno sono
gelate. C’è il sole, ma durerà poco.
Ci attendono circa 200 chilometri di strade pessime,
con lunghi tratti privi di asfalto, altri ricoperti
di fanghiglia, ora semisolida, e altri ancora sollevati
in gigantesche pliche che sono il terrore delle coppe
dell’olio e dei semiassi. Le buche non si prendono
neppure in considerazione. Fanno ormai parte del sistema
stradale russo. A tratti piove e incrociamo alcuni TIR
che sono riusciti a piantarsi anche in piano. I loro
autisti sono soli. Nessuno ovviamente li soccorre. Uscire
da Kansk è un’impresa, ma dopo qualche
giravolta raggiungiamo Kranojarsk. Qui, prendiamo la
deviazione per Abakan nella Repubblica della Kakassia,
risalendo lo Jenisej alla ricerca della grande diga
che lo sbarra. Non riusciamo a vedere la diga (ma come
si fa a non vedere una diga? Lo scopriremo domani) ma
in compenso troviamo un eccellente parcheggio in riva
al fiume, asfaltato e con un bel panorama. Qui, a Divnogorsk,
stanchi morti dopo una giornata di guida massacrante,
passiamo la notte. |
04/06 – Divnogorsk > Acinsk >
Berezovskij – km 602 + 6 ore |
Il clima è orrendo. Piove,
anzi diluvia. Finalmente scopriamo il perché
non abbiamo visto la diga sullo Jenisej. La guida
riporta che
essa si trova a 16 chilometri da Krasnojarsk, 6 chilometri
a sud del paese di Divnogorsk, scordandosi però
che questa ultima località è posta a
45 chilometri dalla città. Dunque la distanza
dalla città è 51 chilometri e non 16!
Comunque arriviamo alla gigantesca diga al cui fianco
è stato creato uno scivolo per far risalire
le chiatte. È un opera imponente, che forma
a monte un enorme bacino, chiamato il “mare
di Krasnojarsk”, sulle cui rive sorgono stabilimenti
balneari. Di ritorno a Krasnojarsk, ci fermiamo per
rimpinguare la cambusa in un modernissimo centro commerciale
appena fuori città. Ha tutte le caratteristiche
di un centro commerciale europeo con la differenza
che le scansie sono di legno grezzo e il pavimento
in cemento grigio. Notevole l’assortimento di
merci. Riprendiamo in direzione di Novosibirsk. La
strada è buona con poche buche, sì che
gli odierni 600 chilometri ci sembrano una passeggiata.
Fra un diluvio e l’altro di pioggia, approdiamo
al solito parcheggio con ristorante nei pressi di
Berezovskij, dove trascorriamo una piacevolissima
serata in compagnia di un gruppo di camionisti che
masticano qualche parole d’inglese. Ci si scambiano
doni souvenir e parecchi commenti sulla polizia. Basta
pagare che chiudono non uno ma due occhi. Noi sino
ad ora non abbiamo pagato nulla e siamo intenzionati
a continuare così.
|
05/06 – Berezovskij >
Kemerovo > Novokuznesk > Tal’menka – km
648 + 6 ore
Abbiamo
deciso di raggiungere gli Altai lungo una direzione secondaria
passando per Kemerovo e Novokuznesk. Le strade, poco trafficate
e molto ben tenute, addirittura in taluni tratti a doppia
corsia, consentono velocità attorno ai 120 km/h.
Ed è proprio questa velocità che segna il
display della pistola radar di un giovane poliziotto quando
ferma l’Hymer capofila. Non sapremo mai il perché,
ma il giovanotto, quando sente che non parliamo russo, si
fa una gran risata e ci lascia andare. Misteri della Siberia!
Arriviamo a Novokuznesk che, nonostante le ciminiere con
cui si annuncia, ci riserva la bella sorpresa di un centro
arioso e ben tenuto, dove si fanno apprezzare, anche per
lo stile, le case anni 30 volute da Stalin. La piazza centrale
ha un bel teatro neoclassico e verdi giardini dove passeggiare
è piacevole. Qui, scambiamo due chiacchiere in francese
con un giovanotto russo che, con la scusa di accendere una
sigaretta, ci ha abbordati. È stupito della nostra
presenza e ne chiede il motivo. Gli diciamo che siamo turisti
e approfittiamo per ottenere indicazioni per raggiungere
la cattedrale. Questa ultima è una delle più
antiche della Siberia risalendo al XVIII secolo e i suoi
colori, bianco e giallo, sono completamente diversi da quelli
riportati sulla Lonely Planet. Quindi, o l’autore
era daltonico oppure le chiese vengono ridipinte come se
niente fosse. All’entrata, un individuo con lunghi
e incolti capelli – che da noi sarebbe un cliente
fisso del SIMAP – continua imperterrito a farsi il
segno della Croce e a inchinarsi toccando il suolo con la
mano. E così continua durante tutta visita alla cattedrale.
Non solo, lo ritroveremo un’ora dopo ancora intendo
a quello strano rito. Saliamo al forte che sorge su una
collinetta proprio sopra la chiesa, e qui ci si para davanti
di nuovo il giovanotto della sigaretta. Si qualifica come
giornalista della TV regionale e chiede
se può fare un servizio su di noi presentandoci anche
il suo cameraman, una graziosa biondina che filma con un
Canon digitale. Siamo stupiti e chiediamo il perché
di tanto interesse. Risponde che a Novokuznesk quattro turisti
italiani, molto avventurosi a suo parere, sono la notizia
del giorno! Acconsentiamo e veniamo ripresi dentro e fuori
dal camper dal cameraman mentre Slavà, così
si chiama il giornalista, intervista Sandra e Maurizio.
Peccato non poter vedere il servizio. Usciamo dalla città
e chiediamo indicazioni al posto di polizia per la strada
verso Bijsk. Ci informano che quest’ultima cittadina
è irraggiungibile con i nostri mezzi passando per
Kuzedeevo e Martynovo e che dobbiamo tornare indietro a
Belovo da dove si può raggiungere la M52 per Barnaul.
È una deviazione che comporta 200 chilometri in più,
ma non rischiamo, anche se siamo ancora convinti che saremmo
potuti passare. A Belovo, con molta difficoltà troviamo
le indicazioni per Barnaul. Fortunatamente la strada è
nuovissima, perfettamente asfaltata, e si snoda fra colline
coperte di fitte foreste di abeti e betulle in una straordinaria
sinfonia di verdi. Non riusciamo ovviamente a raggiungere
la tappa prefissata, Bijsk, e ci fermiamo per la notte da
un benzinaio nei pressi dell’abitato di Tal’menka.
06/06 – Tal’menka >
Barnaul > Gorno-Altajsk > Cerga – km 400 + 6
ore
La mattinata comincia nel modo peggiore: il Benimar non
parte! Non arriva carburante, e così cambiamo il
filtro del diesel.
Ma quando proviamo a rimetterlo in moto, il quadro dell’accensione
non dà segno di vita. Con un telefonata in Italia
col satellitare (in questa zona il cellulare degli amici
veronesi non funziona) scopriamo che potrebbe essere un
corto circuito prodotto dai cavi che segnalano acqua nel
serbatoio e che sono attaccati proprio al filtro. Infatti
è così. Dopo averli isolati, riusciamo a metterci
in movimento. Ma la giornata ha preso una piega storta e
perdiamo tutta la mattina a far acqua da un gentile benzinaio
dove un rubinetto dà acqua a gocce. E finalmente
ripartiamo in direzione di Barnaul. La strada è discreta
anche se si snoda monotona in una campagna coltivata e soleggiata.
Verso Bijsk notiamo la comparsa di parecchie farfalle che,
superata la città, diventano una vera e propria “nevicata”.
Ce ne sono dappertutto: a gruppi sui fiori, per terra a
tappeto, in aria a nugoli e… spiaccicate sul muso
del camper, una strage. Talora si viaggia immersi in una
unica nuvola bianca. È uno spettacolo fantastico
che durerà qualche centinaio di chilometri. Nel primo
pomeriggio arriviamo nella Repubblica degli Altai. Solito
controllo con registrazione al posto di blocco seguito dopo
una ventina di minuti da un secondo alt operato da una pattuglia
di polizia che ci contesta la mancata registrazione in entrata.
Il capopattuglia inizia a scrivere i nostri dati su di un
librone
poi, quando gli facciamo notare il tipo di visto che abbiamo,
telefona al posto di controllo fisso, quindi ripone il libro
e ci rende i passaporti allungandoci anche… un rublo!
Siamo allibiti, deve essere la prima volta che la polizia
russa dà soldi ai turisti anziché estorcerli.
Gli regaliamo due cassette di musica italiana. La strada
corre fiancheggiando il fiume Katun dalle acque impetuose
e limacciose. L’aspetto dei villaggi e dell’ambiente
danno l’idea della cugina povera della Svizzera, comunque
sempre un notevole passo avanti rispetto a quanto abbiamo
visto sinora in Russia. Continuiamo a viaggiare immersi
in nugoli di farfalle e facciamo una sosta presso un incredibile
ponte di legno sospeso che attraversa il letto del fiume
per un centinaio di metri. Una sbarra impedisce l’accesso
ai mezzi alti più di due metri, ma le auto vi passano
facendolo ondeggiare paurosamente. Altra sosta dopo pochi
chilometri in un mercatino di artigianato locale dove facciamo
qualche acquisto. Superiamo Gorno-Altajsk ormai al tramonto
ed è inutile cercare il museo regionale che è
già chiuso. Quindi procediamo sino a superare l’abitato
di Cerga e ci fermiamo nel parcheggio di un minuscolo e
grazioso ristorantino dove il proprietario sta preparando
shashlik all’aperto. L’odore è molto
invitante. Ceniamo in compagnia di una coppia russa che
ci regala giganteschi e squisiti ravanelli.
I shashlik sono deliziosi. Non abbiamo finito di cenare
che compare una scassatissima e scoppiettante auto con a
bordo otto giovani. Ci guardano con curiosità e s’allontanano
lasciandosi dietro una puzzolente nuvola azzurrognola di
gas di scarico. Non passa un quarto d’ora che l’auto
ritorna rendendoci un po’ perplessi sulle intenzioni
degli occupanti. Siamo soli e non si sa mai che possa accadere.
Ma restiamo quasi commossi quando le due ragazze del gruppo
scendono e porgono a Sandra e Mariarosa un mazzo di fiori
di campo appena colti. I fiori sono la scusa per poter parlare
con noi e per curiosare nei nostri camper. Davvero carini.
Sono tutti di etnia altaica come testimoniano i loro lineamenti,
tranne uno che, biondo e con occhi azzurri, tradisce l’origine
russa anche se non lo vuole ammettere. Quello che sembra
il loro capo, ci fa capire di essere un cacciatore di orsi.
Sono felici fin quasi alle lacrime quando regaliamo loro
una cassetta di musica italiana. Ci lasciano a stento dopo
una mezz’oretta con la radio dell’auto a tutto
volume che suona il nastro appena regalato. A coronare questa
bella serata, ci alziamo a notte fonda per ammirare il cielo
stellato. È un cosa mai vista, che ci lascia a bocca
aperta. Batuffoli di stelle galleggiano nel buio fra lucentissime
costellazioni che brillano di una intensità incredibile.
Solo nel nord della Scandinavia abbiamo visto un cielo altrettanto
bello. Ma forse non così.
07/06 – Cerga > Kosh Agach
– km 376 + 6 ore
Percorriamo
la strada che attraversa gli Altai fino al confine mongolo.
È ben tenuta ad eccezione di brevi tratti privi di
asfalto e piuttosto sassosi. Si snoda fra monti e valli
di indubbio fascino. Procedendo verso sud, le vette s’innalzano
progressivamente e diventano sempre più impervie,
coperte da nevi perenni ad un centinaio di chilometri dalla
Mongolia. La giornata è bellissima e la temperatura
sale fino a 28 gradi. Si supera il passo di Seminskij a
1.200 metri di quota lungo tornanti che s’arrampicano
sul fianco del monte e precipitano sull’altro versante
in una valle di stupefacente bellezza, solcata da un fiumiciattolo
cristallino. Con una certa sorpresa notiamo un impianto
di risalita e piste da sci su di una vetta rotondeggiante
a poca distanza dal passo. Cavalli e mucche pascolano liberi
su questo breve altopiano coperto di boschi in cui occhieggiano
qua e là ampie radure vestite di coloratissime fioriture
primaverili. Più avanti si incontra di nuovo il fiume
Katun le cui acque, decisamente color ocra, scorrono in
un profondo e sinuoso canyon bordeggiato da verdissime praterie
in un susseguirsi di panorami vertiginosi. Ora un ghiaione
rossastro, ora una fitta foresta che scende da una vetta
coperta di neve, fattorie solitarie unite al mondo da un
ponticello che viene spazzato via ad ogni disgelo. Villaggi
graziosi e puliti. Molte case in via di ristrutturazione.
Poi un altro passo a 1400 metri,
sorvegliato dal volo di aquile e nibbi. La presenza di animali
è assolutamente straordinaria se comparata alla loro
pressoché totale assenza nelle altre zone della Siberia.
Ed in effetti gli Altai non hanno nulla a che vedere con
la Siberia anche se ne fanno parte politicamente. È
un altro mondo. Un improvviso temporale pomeridiano scarica
una violenta grandinata che riusciamo ad evitare. Il paesaggio
diventa decisamente alpino. In lontananza riusciamo a scorgere
la vetta più alta, il Beluga, di oltre 4.500 metri.
Attorno a noi si innalzano montagne dalle cime frastagliate
coperte di neve. La valle si insinua fra i monti lungo il
corso del fiume Ciuia stringendosi sino ad un imbuto che
si apre in un’ampia prateria con laghetti ancora ghiacciati.
Qui compaiono gruppetti di bellissime orchidee gialle del
tutto simili a quelle viste in Mongolia. Mano a mano che
ci avviciniamo al confine mongolo i prati verdi cedono ad
un altopiano stepposo giallastro delimitato a est e a ovest
da ininterrotte catene di bianche montagne. Ci fermiamo
a dare un’occhiata a un cimitero mussulmano con la
peculiare caratteristica di esporre l’effige del defunto
sulle tombe. Evidentemente 70 anni di Comunismo hanno avuto
i loro effetti. Per il resto è un tipico cimitero
islamico, con bastoni che si innalzano dal tumulo sormontati
da una mezzaluna luccicante nella luce del tramonto. La
gente muore giovane da queste parti, come si legge sulle
lapidi, che più che lapidi sono trespoli in ferro
o legno. Alcune sepolture lasciano intravedere povere ossa
riportate all’aria forse da qualche animale.
Tuttavia il luogo è molto suggestivo: una conca sul
versante orientale che si apre ad anfiteatro verso i monti
a occidente per ricevere gli ultimi raggi di sole. Riprendiamo
il cammino oltrepassando due gole rocciose dai colori che
spaziano dal giallo all’ocra sino ad un rosso ramato
che in taluni punti sfuma nel viola. La strada è
per lunghi tratti sterrata e corre a livello del fiume.
Poi, in un susseguirsi di laghetti salati di un blu intenso
che contrasta col biancore scintillante dei bordi, arriviamo
a Kosh-Agach, un villaggio povero, dove la miseria è
stemperata dalla pulizia e dall’ordine. È un
paesetto mussulmano in cui la cupola di latta della sua
piccola moschea di legno si staglia rilucente sullo sfondo
dei monti innevati. Rinunciamo a sostare qui poiché
quanto ci offrono è la solita autostojanka. Continuiamo
così per un’altra decina di chilometri sino
a quando incontriamo un piccolissimo benzinaio sperduto
nella steppa. Passiamo la notte qui. Davanti a noi solo
le montagne che segnano il confine con la Mongolia. Ancora
trenta chilometri e ritorniamo da dove siamo partiti.
Nota: questa frontiera sino al 2003 non era internazionale
e per superarla bisognava ottenere un permesso speciale
a Mosca. Ora è aperta al traffico come ci ha confermato
una funzionaria dell’Ambasciata polacca a UB. Ma attenzione,
sul lato mongolo ci sono solo piste.
08/06 – Kosh-Agach > Bijsk
– km 558 + 6 ore
Oggi
comincia ufficialmente il ritorno. È una giornata
splendida e forse quella in cui avremo la maggior escursione
termica: dai 0 gradi del mattino ai 30 del primo pomeriggio.
Ripercorriamo a ritroso il cammino fatto ieri ed è
straordinario notare come cambino i panorami al variare
della posizione del sole. Stamani l’abbiamo di spalle
e sembra di viaggiare in un’altra valle. Andiamo con
calma facendo parecchie soste per foto e filmati. Ci fermiamo
per un pic-nic sulle sponde di un torrente. Il luogo sarebbe
stupendo se non fosse per la sporcizia. Rifiuti ovunque.
È assolutamente incredibile l’indifferenza,
se non il disprezzo, dei russi per ciò che li circonda.
C’è persino il monoblocco arrugginito di un
motore d’auto. Al passo di Seminskij incontriamo una
giovane coppia di tedeschi di Friburgo che sta facendo il
giro del mondo in moto. È un peccato non essere riusciti
ad immortalare la loro espressione quando hanno visto arrivare
il muso dell’Hymer. Facciamo due chiacchiere bevendo
un caffè italiano. Sono diretti a Vladivostok da
dove s’imbarcheranno per il Giappone e poi l’Australia.
Beati loro! Facciamo sosta per la notte appena superato
il posto di blocco a Bijsk, nel parcheggio di un nuovo ristorante
dove consumiamo anche un’ottima cena.
09/06 – Bijsk > Kargat –
km 530 + 5 ore
Noiosissimo e afosissimo trasferimento sino a Kargat dove
pernotteremo nella stessa area, fornita di docce pulite
e calde, dell’andata. La strada è un lunghissimo
rettilineo che solca campi coltivati a grano interrotti
a tratti da boschetti di betulle. Le solite tombe ai bordi
della carreggiata, particolarmente numerose nel tratto Barnaul
– Novosibirsk. Fa molto caldo. A pochi chilometri
da Novosibirsk, facciamo una sosta a Akademgorodok, la città
creata ex novo per gli scienziati sovietici. È un
altro mondo: lunghi viali alberati, edifici molto dignitosi
e curati, assenza di obbrobriosi casermoni, pulizia e ordine.
La cittadina s’affaccia sul “mare di Ob”,
una gigantesca distesa di acqua creata dallo sbarramento
del fiume stesso. È un giornata calda, invitante
per un bagno, e così assistiamo ad una sfilata di
graziose russe che si dirigono in bikini verso le spiagge
del “mare”, incuranti di essere nel centro della
città. Transitiamo sulla diga dove attraenti ragazze
vendono pesce appena pescato. Oggi la città è
avvolta da una cappa di smog davvero notevole: e in Italia
ci lamentiamo delle polveri sottili? Usciamo questa volta
senza alcuna difficoltà e procediamo sino a Kargat.
La strada mostra i consueti panorami che ora sono molto
più verdeggianti. Di vita animale neppure l’ombra,
tranne aggressivi mosconi, del tutto simili a tafani, che
invadono il camper appena si apre qualche fessura. Cena
e doccia in compagnia di nugoli di camionisti.
10/06 – Kargat > Izim – km
793 + 5 ore |
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Oggi è più ventilato ed
il caldo si sopporta meglio. Incontriamo un camper tedesco
con a bordo una coppia anzianotta in compagnia di un
Rottweiler. Hanno rotto il motorino di avviamento e
stanno aspettando che apra un meccanico per ripararla.
Nel pomeriggio arrivano temporali che rinfrescano un
po’. Incrociamo un pick up tedesco che si sta
dirigendo a Omsk. Il panorama non muta molto, anche
se i rifiuti sono coperti dall’erba alta. Ma basta
fermarsi un attimo per rendersi conto che non sono spariti.
Alle 20, ma in realtà sono le 19 per il cambio
di fuso orario, approdiamo da un benzinaio civile, in
stampo europeo. Niente gabbiotto blindato con cassetto:
si paga con carta di credito entrando all’interno
dove c’è una discreta mercanzia. Siamo
poco dopo Izim, allo stesso incrocio dove nel viaggio
di andata facemmo riparare la gomma dell’Hymer.
Giretto a piedi nel vicino villaggio in compagnia di
fameliche zanzare. |
11/06 – Izim > Tijumen > Tobolsk –
km 570 + 4 ore
Non
si può lasciare la Siberia senza aver visitato Tobolsk,
la sua più antica città. Facciamo così
una deviazione di qualche centinaio di chilometri, anche
perché la strada é in buono stato (ad eccezione
dei soliti lavori in corso a senso unico alternato la cui
cadenza è lasciata alla fantasia ed educazione degli
automobilisti, molto scarsa in Russia). Superata rapidamente
Tijumen, e limitata al minimo la pausa pranzo per via di
giganteschi e aggressivi mosconi, arriviamo a Tobolsk nel
primo pomeriggio. Con facilità parcheggiamo davanti
al Cremlino, una bella costruzione difensiva eretta nel
XV secolo sulla sponda alta del fiume omonimo, ancora ben
conservata e tenuta, le cui
bianche mura turrite ne fanno una piccola Carcassonne siberiana.
Al suo interno è in corso un Festival di musiche
folcloristiche siberiane in cui si esibiscono gruppi in
costumi tipici. Una vera fortuna. Uscendo, ci ferma una
giornalista della radio regionale di Tobolsk che ci strappa
un’intervista. Poi riusciamo a trovare l’abitazione
di MimSeim, un originale ed estroverso artista che intaglia
sculture su ossa di animali. Riusciamo a comperarne alcune
vincendo le sua resistenza anche con l’aiuto di Elena,
una giovane donna siberiane che parla un ottimo inglese
avendo vissuto 6 anni a Londra. Qui ha conosciuto un ebreo
iraniano, Jacob, che è diventato suo marito e col
quale ora gestisce il ristorante del Museo di Storia di
Tobolsk. Finiamo la serata in loro compagnia, a cena al
ristorante, e qui scopriamo che l’ottimo cappuccino
che ci offrono viene fatto con una macchina e con caffè
SAECO. Incredibile. Passiamo la notte vicino al Cremlino.
12/06 – Tobolsk > Ekaterinburg
– km 562 + 3 ore
Ritorniamo verso Tijumen facendo una sosta a Pokrovskoe,
il paese natale di Rasputin. La casa dove nacque è
stata demolita e il paese si trova nelle stesse condizioni
di allora, almeno a giudicare dallo stato delle strade.
Sono un acquitrino fangoso dove le ruote dei mezzi affondano.
Dopo qualche centinaio di metri, desistiamo dal procedere
oltre. A Tijumen ci fermiamo a fare un po’ di spesa
in un affollato edificio dove tutti i negozi espongono le
stesse merci. L’iniziativa russa lascia alquanto a
desiderare e non brilla di fantasia. Come all’ingresso
delle città quando ci si imbatte in soggetti, in
genere donne vecchie, che vendono tutti lo stesso tipo di
oggetto o di cibo o verdura. Poco dopo Tijumen la strada
diventa pessima per lunghi tratti. Con l’arrivo poi
di un violentissimo temporale le cose si fanno ancora peggiori.
Comunque raggiungiamo Ekaterinburg nel tardo pomeriggio
e ci fermiamo a ridosso della città nel parcheggio
di due baraccotti che fanno shashlik. Dopo cena, mentre
passeggiamo, un coppia affacciata a un balcone ci saluta
e fa cenno di salire in casa loro. Siamo perplessi, ma poi
l’uomo, che nel frattempo è sceso in strada,
ci convince. La casa è in via di ultimazione e i
nostri due ospiti ci mostrano con orgoglio quel monolocale
in cui vivono dalle pareti rivestite di carta da parati,
il frigorifero modello americano Samsung e… il bagno
con la vasca. Non sappiamo perché ci abbiano invitato,
forse era per mostraci che anche la Russia sta cominciando
ad avere comodità di tipo occidentale. A fatica prendiamo
commiato dopo numerosi giri di vodka e dolci offerti dai
padroni di casa. Un’altra curiosità: devono
vino francese.
13/06 – Ekaterinburg >
Suksun – km 288 + 3 ore
Mattinata dedicata alla visita di Ekaterinburg. Iniziamo
lungo la solita centrale Ulitza Lenina con il suo laghetto
e il giardino geologico un
po’ maltenuto. Quindi in taxi raggiungiamo il monastero
eretto nel luogo dove sorgeva la casa Ipatev, demolita da
Eltsin, in cui venne fucilato lo zar Nicola II e la sua
famiglia. È un complesso sfarzoso dove domina l’idolatria.
False lapidi tombali con i nomi dei fucilati sono appese
a pareti di marmo chiaro; un’icona troneggia con i
volti dei componenti della famiglia incorniciati da aureole
dorate. Li hanno già santificati. Vendono pure un
pugno di terra che forse ricoprì le ossa di quegli
sfortunati. È una cosa insopportabile. Torniamo alla
piazza centrale e, davanti alla Duma veniamo fermati a piedi
da tre zelanti poliziotti che ci contestano la mancanza
della registrazija. La questione si risolve in pochi minuti
quando facciamo notare loro il tipo di visto. Se ne vanno
confusi e sconcertati. Da noi sarebbe impensabile fermare
un pedone e chiedergli i documenti senza motivo. Come pure
sarebbe impensabile che un tassista vada a far benzina col
cliente chiedendogli di anticipare i soldi per pagare il
carburante. Ma anche questo capita in Russia. Ed infatti,
con quello stesso taxi del rifornimento ci stiamo recando
al Memoriale che ricorda le 25.000 vittime locali delle
purghe staliniane. Il luogo è deserto e decisamente
incolto. Evidentemente di quelle vittime nessuno s’interessa
più di tanto. Bellissimo e toccante è invece
il monumento che ricorda i caduti della guerra in Afghanistan.
Una gigantesca statua di soldato, color piombo argentato,
che siede affranto e spossato a terra appoggiandosi al kalashnikov,
col capo reclinato fra le gambe. Lo stile è tipicamente
da realismo socialista, quantomeno per le dimensioni, ma
è stemperato da quell’atteggiamento di profonda
stanchezza e sconforto così lontano dalle pose eroiche
e di sfida dei monumenti dell’ex URRS. Insomma, c’è
retorica, ma in negativo: il soldato sembra chiedersi “ma
che abbiamo combinato? Non ne posso più…”
Sotto un diluvio d’acqua torniamo ai mezzi, ma non
facciamo tempo ad infilare le chiavi che con uno stridio
di freni si para davanti all’Hymer un’auto della
polizia. “Fuori i documenti” ordinano. “Che
è successo?” chiediamo noi. Scopriamo di aver
parcheggiato
i mezzi di fronte ad una caserma il cui comandante ha passato
qualche ora d’inferno vedendo due veicoli stranieri,
completamente chiusi, parcheggiati al di là della
strada proprio davanti alla carraia della sua caserma. Il
terrorismo ceceno è sempre in agguato. Lo stesso
comandante viene a raccogliere i nostri dati e tutto finisce
lì con una stretta di mano e con la polizia, sorridente
e visibilmente sollevata, che ci scorta a parcheggiare nella
vasta piazza davanti alla Duma. Regaliamo un bottiglia di
vino italiano ai due poliziotti. Fra un acquazzone e l’altro
facciamo un giretto in un mercatino delle pulci dove acquistiamo
una presso-fusione del profilo di Stalin del 1939. Poi ci
rifugiamo nei magazzini GUM. Niente di speciale, solo piuttosto
puzzolenti. Ripartiamo da Ekaterinburg cercando il confine
fra Asia e Europa ma il tempo pessimo ci fa desistere; quindi
ci avviamo verso Perm. La strada è di certo fra le
peggiori che abbiamo percorso da quando siamo entrati in
Russia. Sembra che un gigantesco erpice vi sia passato sopra
affondando e grattando con i suoi denti cemento e asfalto.
Il risultato è una carreggiata ridotta ad una scogliera
acuminata dove per lunghi tratti è molto meglio procedere
sulla corsia di sosta che, pur non essendo asfaltata, rappresenta
sempre un minor pericolo per i pneumatici. La tortura dura
per oltre 250 chilometri. Ci fermiamo nei pressi di Suksum,
in un parcheggio in riva ad uno stagno, asfaltato (sic!)
e con poche zanzare.
14/06 – Suksum > Perm >
Selicka – km 460 + 3 ore
La giornata è nuvolosa e pioviggina, ma la cosa non
ci disturba molto. Dobbiamo infatti visitare le grotte di
ghiaccio (Stalagmit) nei pressi di Kungur e quindi che piova
o meno siamo sempre al riparo. In breve raggiungiamo la
più orrenda cittadina che abbiamo incontrato nel
nostro lunghissimo viaggio in Russia. Lo squallore, la desolazione,
l’abbandono e il disfacimento dell’abitato sono
indescrivibili: solo andando di persona ci si può
rendere conto dello strazio che è Kungur. E dire
che ci hanno fatto anche un congresso mondiale di Geologia.
Nonostante il grande cartello che pubblicizza le grotte,
con tanto di mappa per raggiungerle, trovarle è un’impresa
sovrumana. Ma alla fine ci ritroviamo nell’unica
bella area di Kungur: il parcheggio e l’ingresso alle
grotte. Si entra accompagnati da una guida che dà
spiegazioni solo in russo, anche se per la verità
ci hanno fornito di un registratore che narra la storia
delle grotte e le loro caratteristiche in inglese. È
una passeggiata di tre chilometri. All’inizio si cammina
nella parte permanentemente ghiacciata, dove la temperatura
varia fra meno – 2 e – 15 °C a seconda le
stagioni. Al momento siamo attorno ai – 8. Le sculture
formate dal ghiaccio sono affascinanti. Ma qualche cosa
non funziona nell’impianto di illuminazione e restiamo
per lungo tempo nel buio totale, immobili aspettando al
freddo che torni la luce. L’area ghiacciata si continua
con una lunga zona a temperatura più elevata, dove
è presente anche un laghetto in cui vivono primordiali
forme di gamberetti. All’uscita acquistiamo un pezzetto
di Selenite, il gesso di cui sono fatte le grotte. Ci avviamo
quindi verso Perm, non senza qualche difficoltà ad
uscire da Kungur. La strada è un po’ meglio
di ieri e in poco tempo arriviamo in città. Impiegheremo
oltre un’ora e mezzo per riuscire a lasciarla sia
per la totale mancanza di segnaletica, sia per i mostruosi
ingorghi di traffico per i quali Perm è famosa in
tutta la Russia. È una grande cittadona piena di
case di legno malmesse, palazzoni che hanno visto tempi
migliori, condomini di Regime, rotaie del tram sopraelevate
dal piano stradale, filobus cadenti e, per finire, grandi
viali alberati in cui letteralmente nevica la fioritura
delle piante. Un posto ideale per asmatici e allergici.
Del traffico meglio non parlare, basti dire che parecchi
automobilisti superano le code ai semafori salendo sui marciapiedi
o infilando semplicemente i percorsi riservati ai tram con
tanto di paletti e catene che li delimitano. E la polizia?
Ogni tanto ne ferma qualcuno. La sola cosa che viene rispettata
è il rosso ai semafori, il resto è corte bandita.
Lasciato l’incubo Perm, ci avviamo verso Kazan. La
strada è spesso malmessa, controllata da decine di
pattuglie con l’immancabile radar. In un tratto di
80 chilometri ne contiamo 16. Si viaggia in un panorama
ondulato di pinete e pascoli con tutte le possibili sfumature
di verde. Oltrepassiamo villaggi più o meno grandi,
ma tutti composti dalle solite casette di legno che, come
il pane, sono uguali in tutta la Russia. Evviva la fantasia.
Ci fermiamo poco dopo l’abitato di Selicka presso
un ristorantino in riva ad un laghetto. Qui, abbiamo appena
finito di cenare, quando arrivano dei musicanti con strumenti
ed amplificazione. La musica parte al massimo livello. Decidiamo
di trovare un altro posto per poter dormire in pace. E così,
ripartiamo fermandoci 10 chilometri dopo in un bello spiazzo
sul limitare della pineta. Sembra un luogo meraviglioso,
ma quale delusione quando si mette piede nel bosco: rifiuti
ovunque, d’altronde siamo in Russia… l’avevamo
scordato per un momento.
15/06 – Selicka > Kazan –
km 440 + 2 ore
Siamo all’ultimo giorno di viaggio, nel senso che
con Kazan si esaurisce la fase turistica e inizia la galoppata
di rientro in Italia. Dopo 440 chilometri sudati, con il
solito difficoltoso attraversamento di una grossa città,
Ievsk, dall’urbanistica assurda, approdiamo
a Kazan, la capitale della Repubblica del Tatarstan. Un
conglomerato di appariscenti grattacieli si profila all’orizzonte,
ma quando entriamo in città le ampie vie e le architetture
curate ci fanno scordare quasi di essere in Russia. Sarà
perché qui l’etnia dominante è tatara?
Troviamo facilmente un parcheggio custodito ai piedi del
Cremlino, uno dei più belli di tutta la Russia. Ed
è grande la nostra sorpresa, una volta entrati, quando
ci ritroviamo immersi in un gigantesco cantiere. Per la
verità, tutta la città si sta rifacendo il
look. D’altronde quest’anno ne ricorre il Millesimo
anniversario di fondazione. Così, saltellando da
una pavimentazione all’altra, arriviamo fino alla
moschea ormai in via di ultimazione. È stata ricostruita
da maestranza turche nelle stesso luogo ove sorgeva quella
distrutta da Ivan il Terribile. Visitare una città
i cui edifici e monumenti sono in via di restauro e rivestiti
da impalcature, in genere non è la massima aspirazione
del turista, ma questa volta per noi è diverso. Dopo
tanta rovina e incuria, vedere tornare a nuova vita muri,
cupole e facciate di edifici fa un piacere enorme. E così
non si può che apprezzare lo sforzo che stanno facendo
per riportare agli antichi splendori le bellissime architetture
dei palazzi di fine Ottocento del vecchio centro di Kazan.
Certo, appena dietro l’angolo, la Russia è
ancora presente con tutte le sue brutture e decadenze, ma
la vista dei cantieri lascia ben sperare. Curiosa è
una statua di un insolito Lenin, abbigliato come un dandy,
che si trova nella centralissima e pedonalizzata Ulitza
Lenina. Qui è arrivato anche l’Occidente con
MacDonald e altri marchi famosi. Ceniamo molto bene in un
ristorante turco.
Nota: da qualche giorno non ci fermano più ai posti
di blocco. Tempi nuovi?
16/06 – Kazan > Niznij Novgorod > Vladimir
> Lakinsk – km 647 + 2 ore
Ci lasciamo alle spalle Kazan avviandoci a ovest verso Mosca.
La monotonia del viaggio viene interrotta dalla polizia
che ferma l’Hymer capofila contestando l’assurda
velocità di 77 km/h quando il limite è 40.
Facciamo notare che marciavamo incolonnati all’ingresso
del paese e che era materialmente impossibile andare alla
velocità segnata dal display del radar, ma il poliziotto
non demorde. Vuole vedere anche la patente internazionale.
Poi arriva Sandra che gli urla in russo le solite quattro
parole – telefono, interprete, mosca, ambasciata –
e quello ci rende i documenti con un sorriso. Riprendiamo
il cammino e superiamo Niznij Novgorod. In questa zona va
di moda vendere lampadari lungo la strada. Incontriamo continui
cantieri stradali che rallentano alquanto l’andatura.
Le aree di sosta sono rare e malmesse come al solito. Ne
troviamo una verso le 22 poco dopo Vladimir nei pressi di
Lakinsk. Non è asfaltata, ma in compenso uno spesso
strato di ghiaia impedisce di affondare nel consueto fango.
Dalla vicina M7 proviene un rumore infernale.
17/06 – Lakinsk > Mosca >
Velikie Luki > Novosokol’niki – km 681 +
2 ore
Dobbiamo decidere se rientrare attraverso la Bielorussia
oppure la Lettonia. Il dubbio viene fugato subito quando
ci accorgiamo che il visto bielorusso parte dal 20 giugno.
Siamo stanchi dell’Est, della sua polizia, della sua
sporcizia e della sua miseria, così, quando arriviamo
a Mosca, anziché imboccare la M1, prendiamo la M9
che porta dritta in Europa. L’anello moscovita è
trafficatissimo con rallentamenti e code continue. La città
è avvolta da una cappa di smog incredibile. Infiliamo
la M9 che i segnali stradali indicano come autostrada. E
in effetti ci sono sì due corsie per senso di marcia,
ma con incroci, semafori e mercatini improvvisati, insomma
un’autostrada alla russa. Con nostro disappunto, comunque,
termina dopo un’ottantina di chilometri. Fortunatamente
il traffico è quasi insistente, come pure le pattuglie
di polizia. Rarissimi anche villaggi. Ogni tanto compaiono
banchetti che vendono pelli di lupi e orsi. Superata Velikie
Luki, ci fermiamo in un parcheggio custodito (le aree di
sosta sono veramente scarse in questa zona) poco dopo la
cittadina di Novosokol’niki. Cena pessima nel vicino
ristorante.
18/06 – Novosokol’niki
> Sebe (Rus)/ Zilupe (LV) > Vinius > Trakai
– km 524 + 1 ora
Dopo aver aggiustato un pneumatico dell’Hymer presso
un simpatico gommista russo che ha un aiutante uzbeko e
che stava terminando un lavoro sulla gomma di un azero,
ci dirigiamo alla frontiera con la Lettonia. Sul versante
russo, superiamo una lunghissima fila di TIR incolonnati
a destra e solo tre auto ci precedono all’ingresso.
Le cose procedono in fretta poi, d’un tratto, nasce
la solita complicazione: non credono che arriviamo dalla
Mongolia. Nelle loro teste infatti, l’abitudine al
sospetto è tale, che non ritengono possibile l’aver
attraversato l’intera Russia privi di registrazione
senza che nulla ci sia accaduto. Non si fidano neppure del
timbro d’ingresso fatto dai loro colleghi di Kiakta.
E così chiedono qualcosa che comprovi che veniamo
da laggiù. Restano veramente di sasso quando vengono
mostrate loro una ricevuta bancaria di cambio di Krasnojarsk
ed una di Bancomat a Irkutsk. Ci registrano loro stessi
scrivendo sul retro del foglietto di immigrazione i nomi
di tutte le città che abbiamo attraversato. C’è
un ultimo timido tentativo circa l’obbligo di registrazione
entro tre giorni dall’ingresso in Russia, ma viene
subito sventato facendo notare il tipo di visto che abbiamo.
Ci lasciano andare con un sorriso molto perplesso. Davanti
a noi brilla il cerchio di stelle che segna l’inizio
dell’Europa. Siamo a casa. La Lettonia ci accoglie
benissimo: strade ben asfaltate, case colorate, erba tagliata,
marciapiedi e pulizia ovunque. Sembra di essere in Danimarca,
dopo due mesi di Russia. Facciamo una sosta al Santuario
cattolico più grande del paese, dove è stato
anche Papa Giovanni Paolo; poi attraversiamo Daugavpils
che pur non nascondendo l’architettura sovietica è
assolutamente vivibile. Un sogno rispetto alle città
russe. In breve siamo alla frontiera con la Lituania che
superiamo in qualche secondo: e chi si ricorda più
dell’interminabili code e della montagna di documenti
che si dovevano compilare sino a qualche anno fa? La Lituania
è ancora meglio. Strade perfette, marciapiedi colorati,
aree di sosta degne della Francia, benzinai moderni, insomma
è Europa. Prima di Vilnius, facciamo una sosta al
Centro Geografico dell’Europa dove veniamo sorpresi
da un acquazzone che ci lascia fradici. Quindi ci dirigiamo
verso Trakai ed entriamo nel vecchio e amico camping Slenyje.
Cena ottima al ristorante.
19/06 – Trakai > Lazdijai
(LT)/Sejny (PL) > Augustow > Varsavia – km 544
Dopo un giretto per Trakai, decidiamo di andare a visitare
il Grutas Park di Druskininkzi al confine con la Polonia,
prima di rientrare a casa. Ci sembra doveroso dare un’occhiata
a questo discusso parco dove un miliardario lituano ha raccolto
tutte le statue che il regime comunista aveva disseminato
per vie e piazze della Lituania. Il Grutas Park è
molto bello, visitatissimo e fissa per sempre un pezzo di
storia di quel paese, anche dal punto di vista artistico.
Numerose sono le statue di Lenin, fra cui una che lo immortala
in una posa insolita, seduto con un’espressione meditabonda;
in numero minore sono le statue di Stalin, mentre tantissime
sono quelle dei “collaborazionisti” lituani
che appoggiarono l’invasione sovietica del dopo guerra.
Molto bella e per nulla “pedante” la ricostruzione
di un Gulag siberiano, simile a quello dove venne confinato
il padre del magnate. Il Gulag è ricostruito in mezzo
alla foresta con tanto di capanne di paglia dove vivevano
i confinati e di altoparlanti che diffondono musiche d’epoca.
La visita al parco ci sembra una degna conclusione del viaggio:
qui il passato è consegnato alla Storia, in Russia
no. Emblematica è la targa della via Ulitza Lenina:
in Lituania si trova già in un museo, poche decine
di chilometri più a est, Ulitza Lenina è ancora
una delle vie principali del centro città! E che
il passato sia stato consegnato alla Storia è definitivamente
comprovato alla frontiera di Lazdijai: ormai baracche, code
chilometriche e fogli da compilare sono solo un ricordo.
In pochi attimi siamo a Sejny in Polonia, a ripercorrere
per l’ennesima volta la strada che attraversa la fitta
foresta di Augustow. Il fondo è decisamente migliorato
rispetto a qualche anno fa, ma la viabilità è
ancora lenta: tutta la Polonia è disseminata di strade
strette e cantieri. Oltrepassiamo Varsavia e ci fermiamo
nel parcheggio di un benzinaio ad una cinquantina di chilometri
dalla città, sulla strada per Katowice.
20/06 – Varsavia > Tesin
(CZ) > Cadca (SK) > Bratislava > Vienna > Graz
– km 727
Ora respiriamo l’aria di casa. Una lunga galoppata
ci porta in una bellissima giornata nel cuore dell’Austria.
Ci fermiamo un’ottantina di chilometri prima di Graz
in un’area di servizio sull’autostrada A2 e,
dopo aver cenato al ristorante, salutiamo i compagni veronesi.
Noi partiremo molto presto domattina.
21/06 – Graz > Castel d’Aiano
– km 710
Partiamo alle 5:45 e, grazie ad una giornata di traffico
scarso, alle 13,50 siamo a casa, dopo due mesi di viaggio
e 23.304 chilometri percorsi. Cui vanno aggiunti i 2.500
km di jeep e i 1.000 di aereo macinati in Mongolia.