Viaggiare - Diari di Viaggio


RUSSIA – SIBERIA – MONGOLIA

(Aprile - Maggio - Giugno 2005)

testo e foto di Sandra Mondini & Maurizio Missana

Dopo l’Asia Centrale, ci siamo presi un anno di riposo tornando in luoghi “civili” quali la Scandinavia e raggiungere poi le Svalbard concedendoci qui dieci giorni di crociera su di un rompighiaccio alla ricerca di orsi polari. Ma quest’anno il desiderio di avventura s’è rifatto vivo e abbiamo deciso di arrivare in Mongolia passando per Russia e Siberia. La meta era la “terra di Gengis Khan”, ma l’attraversamento del più esteso stato del mondo, qual è la Federazione Russa, ha costituito un viaggio nel viaggio, forse ancora più interessante ed avventuroso della stessa Mongolia. Con al seguito Mariarosa e Luciano, la coppia veronese che ci aveva già fatto compagnia nel tour in Asia Centrale, siamo partiti la sera del 23 Aprile. L’intero viaggio è durato 60 giorni, dallo stesso 23 sino al 21 Giugno; abbiamo attraversato 10 Nazioni (Austria – Ungheria – Ucraina – Russia – Mongolia – Lettonia – Lituania – Polonia – Cekia – Slovacchia) e percorso 26.800 chilometri di cui 23.300 in camper, 2.500 in fuoristrada e 1.000 in aereo. Una annotazione: gran parte delle informazioni che si trovano su Internet circa i viaggi in Russia, sono errate o non veritiere come ad esempio il fatto che il CB sia vietato, che sia obbligatoria l’accensione diurna delle mezzeluci, che occorrano permessi speciali per entrare col camper ed altre simili amenità. Nulla di tutto ciò è vero. Probabilmente si tratta di mala-informazione operata ad arte dalle agenzie per vendere i loro servizi. Noi abbiamo fatto tutto per conto nostro.


23/04 – Castel d’Aiano > Autostazione Udine Sud – km 310
L’appuntamento con gli amici veronesi è fissato per domani mattina, tuttavia decidiamo di partire questa sera per risparmiarci una levataccia. Dormire a casa o in una autostazione sull’autostrada non fa differenza anzi, saremo più freschi e riposati. Non dovremo comunque attendere domani per incontrare Luciano e Mariarosa in quanto riescono a sganciarsi da un matrimonio e ci raggiungono a Venezia. Dopo l’Asia Centrale si ricompone così la coppia di camper, il nostro Hymer e il loro Benimar, che affronterà questa nuova avventura.

24/04 – Udine Sud > Hortobagy (Ungheria) – km 833
Ci lasciamo alle spalle un’Italia coperta di nuvole e un bel sole saluta l’entrata in Austria. Per fortuna il traffico è molto scarso poiché sino a Graz l’autostrada è un susseguirsi di cantieri. Poi le cose migliorano e arriviamo al confine ungherese molto rapidamente. I controlli sono praticamente inesistenti e a mezzogiorno siamo a Budapest. L’attraversamento della città è veloce e continuiamo verso la frontiera ucraina decidendo di passare la notte nel parco di Hortobagy dove eravamo già stati quattro anni fa. Il traffico è piuttosto sostenuto e ci sorge naturale una domanda: come fanno gli ungheresi a mettersi in auto quando il prezzo del Diesel è di 1,4 Euro al litro, mentre un menù turistico ne costa 3? Comunque, al tramonto siamo ad Hortobagy dove, con nostro disappunto, troviamo tutti e due i ristoranti chiusi. Peccato, quattro anni fa mangiammo molto bene. Non ci resta che cenare in camper.

25/04 – Hortobagy > Dubno (Ucraina) – km 513 + 1 ora dall’Italia
Lasciamo la località ungherese alle 8 del mattino e in due ore e mezza siamo a Zahony-Chop, il confine con l’Ucraina. Piove e fa abbastanza freddo. Davanti ai nostri mezzi si estende una mostruosa colonna di furgoni Mercedes Sprinter carichi di merci occidentali. Sono tutti in attesa di espletare le formalità doganali. Noi non abbiamo merci soggette a dogana e, a fatica, sopravanziamo la coda riuscendo ad uscire verso le 13. Rispetto a quattro anni fa le strade ucraine appaiono alquanto migliorate. L’asfalto è nuovo con buona segnaletica; tuttavia, i lavori d’allargamento della carreggiata rendono faticosa la guida per lunghissimi tratti. Per decine e decine di chilometri fango, buche e TIR obbligano a basse andature. Una vera tortura cui si aggiunge la pioggia che ci accompagna senza tregua. Lungo quei lunghi tratti sterrati ci torna in mente la curiosa domanda di uno dei tanti conducenti di Sprinter fermi in dogana “Quante gomme di scorta avete?”. Se lo stato delle strade è tutto così, cominciamo a dubitare che le tre che abbiamo per entrambe i camper siano sufficienti. Fino a Leopoli è un susseguirsi di cantieri poi, in direzione di Kiev, le condizioni migliorano. Ci fermiamo per la notte fuori dal paesetto di Dubno, in un parcheggio abbandonato, squallido e fangoso, nei pressi di una locanda dove ceniamo piuttosto bene con 8 € in quattro, birra e vodka comprese. Continua a piovere.

26/04 – Dubno > Lubny (Ucraina) – km 734 + 1 ora
Questa mattina non piove più, ma il freddo permane col termometro che non supera gli 8 °C. Ci muoviamo verso Kiev su di una strada discreta, quasi interamente alberata, che si allunga su una pianura ondulata semi allagata dalle piogge. Il traffico è scarso, ma le pattuglie della polizia abbondano. Tutte dotate di pistola radar. Il parco macchine ucraino appare nettamente migliorato: molte le auto europee nuove fra le quali spicca la mancanza del marchio Fiat. Gli ucraini hanno una buona condotta di guida, forse per merito dell’onnipresente polizia. A metà pomeriggio raggiungiamo la capitale ucraina. L’attraversiamo nel tempo record di 45 minuti, ma poi sbagliamo strada e, solo dopo un’ottantina di chilometri, ci accorgiamo di andare verso la Bielorussia. Torniamo indietro e riprendiamo la giusta direzione verso Poltava. Procedendo, riconosciamo l’Ucraina vista quattro anni fa. Minuscoli villaggi di case, spesso in legno, con l’orticello e i grandi nidi di cicogne sui pali della luce. Alberi colonizzati da rotondeggianti ammassi di vischio e da torme di corvi gracchianti. Vecchi camion sovietici, Tir stracarichi avvolti da nuvole nere di gas di scarico, corriere che stanno assieme per miracolo, carretti tirati da cavalli, moto-sidecar. In questa zona l’Ucraina non è molto cambiata. A sera ci fermiamo a Lubny, nel parcheggio di una vecchia fabbrica mezza distrutta che l’intraprendenza di un qualche affarista sta trasformando in un accogliente punto di sosta turistico. V’è già un bell’albergo con un grazioso belvedere sul fiume. Cena in un misero ristorante nei pressi del parcheggio, dove non si riesce a spendere un Euro in quattro.

27/04 – Lubny > Krasnodon/Doneck (Russia) – km 715 + 2 ore dall’Italia
Giornata di trasferimento in un piacevole clima primaverile. La strada è discretamente buona immersa in una campagna smisurata. Attraversiamo Poltava e Karkov senza problemi procedendo verso il confine con la Russia. Come per incanto sono scomparsi dalla carreggiata carretti, cavalli e galline. Anche le cicogne non ci sono più. In compenso i villaggi sembrano più benestanti. Proseguiamo ad allenarci nella lettura dei cartelli stradali in cirillico e a Bran’ka svoltiamo per Krasnodon. Siamo in una zona ricca di miniere, in parte dismesse. Il paesaggio non è dei migliori: enormi colline di scorie minerali ci fanno compagnia e compaiono gli scheletri di fabbriche chiuse. I villaggi qui sono miserevoli, con casupole abbandonate che cadono a pezzi. A Krasnodon arriviamo che è buio e qui il buio è di quelli con la B maiuscola. La cittadina è squallida, le strade sono in condizioni pietose con tracce di asfalto. Le buche hanno qualcosa di sovrumano. Fatichiamo non poco a imboccare la strada per la frontiera che si inerpica fra i monti, sterrata, senza alcuna indicazione. Ci sembra di percorrere un sentiero di montagna e dubitiamo fortemente che quel tratturo conduca al posto giusto, sino a quando la frontiera si materializza alla sommità di un dosso. Sono le 21 e siamo soli. Con 80 dollari stipuliamo l’Assicurazione RC auto per la Russia quindi ci apprestiamo ad uscire dall’Ucraina. Qui iniziano i primi incagli burocratici. Le guardie si insospettiscono per il nostro visto russo d’affari e mobilitano anche un interprete che parla inglese, per comprenderne il perché. Comunque, dopo un’ora di domande ci fanno passare fra sorrisi e strette di mano. Al posto di frontiera russo, distante 700 metri, attendiamo due ore in coda ad un vecchio camion prima che si degnino di alzare la sbarra. Il luogo è desolato. Mentre la frontiera ucraina è stata rinnovata, tutto sommato con gusto, qui ogni cosa è rimasta come 70 anni fa: baraccamenti di legno cadenti, strada sterrata piena di buche e fango, chiazze di nafta ovunque, tubi arrugginiti e grovigli di fili elettrici che pendono da tetti sgangherati di eternit. Il freddo è pungente. Al controllo passaporti tutto sembra filare liscio sino quando interviene una guardia in borghese che chiede il visto d’ingresso per i camper. Restiamo interdetti a quella richiesta. Ma la guardia, ora spalleggiata anche dalla funzionaria che ha in mano i nostri documenti, non demorde. Mostriamo le lettere d’invito (copia originale in cirillico) della ditta russa sulle quali è specificato che viaggiamo con i nostri mezzi e dei quali sono riportate tutte le caratteristiche, numero di targa e telaio compresi. È tutto inutile: noi possiamo passare, ma i camper devono tornare in Ucraina. Dopo un tiramolla durato due ore, i russi si arrendono ma, quando tutto sembra risolto, compare un altro problema: il timbro d’uscita ucraino è sbagliato (sic!) Secondo i russi dobbiamo tornare indietro e far cambiare il timbro. Siamo alla follia. Tuttavia Sandra e Mariarosa, decidono di riattraversare la terra di nessuno e chiedere lumi agli ucraini. Questi ultimi stanno dormendo della grossa e solo con la minaccia di telefonare ai numeri di assistenza turistica che campeggiano in un cartello posto all’ingresso della frontiera ucraina e che noi abbiamo annotato (Kiev 8044 2778742 – Kharkiv 8057 7004455 – Luhansk 80642 319036) viene svegliato il direttore della frontiera. Costui esordisce con un “i russi sono degli idioti” quando gli viene riferito il motivo del nostro ritorno. Il timbro è corretto e lui non può fare nulla di più. Sandra e Mariarosa rientrano e, sbandierando sotto il naso dei russi i numeri dell’assistenza turistica ucraina, riferiscono ciò che ha detto il collega ucraino. La situazione si sblocca d’incanto e viene apposto il visto d’ingresso sui passaporti. Alla dogana, le operazioni sono celerissime: gli stessi funzionari, imprecando contro i loro colleghi del controllo passaporti, si fanno in quattro per accelerare le pratiche. Alle 4 del mattino entriamo in territorio russo e parcheggiamo nell’area di uno sgangherato benzinaio, a 500 metri dalla frontiera, per passare quanto rimane della notte. Continua a fare un freddo cane.

28/04 – Doneck > Volgograd (Stalingrado) – km 409 + 2 ore
Dormiamo un po’ più al lungo e un bel sole caldo ci saluta al risveglio. Gli alberi attorno sono pieni di grossi corvi gracchianti. Qualche vecchio camion militare si ferma per fare rifornimento. Partiamo verso le 10 e il primo problema da affrontare è cambiare valuta con rubli. Trovare una banca in questa zona non è facile. Le case del primo paesetto che incontriamo, si affacciano basse e tristi lungo marciapiedi disastrati e pieni di buche, con impianti di illuminazione pubblica che solo a guardarli danno “la scossa”. I negozi sono rari, anzi, ce n’è uno solo, il magazin, in cui si vende di tutto, dal pane al vestito. Il centro del paese è introvabile. Qui i Romani non sono arrivati e il concetto di cardo/decumano non è applicabile per cui diventa difficile capire quale sia la strada principale dove in genere dovrebbero essere le banche. Ne troviamo per caso una, ma questa non è abilitata al cambio. Alla successiva cittadina riusciamo a cambiare in fine, anche se dobbiamo fare i conti con l’inettitudine di impiegati scontrosi. Riprendiamo in direzione di Volgograd. L’asfalto è buono e la strada corre dritta lungo una sterminata pianura interrotta da colline di scorie minerarie. Ricominciano i posti di blocco fissi della polizia. Veniamo ripetutamente fermati, ma solo una volta gli agenti procedono alla registrazione. In ogni caso sono cortesi. Dopo una breve sosta pranzo, il tempo peggiora e inizia a piovere. Il traffico è abbastanza scarso, perlopiù costituito di camion che sembrano usciti da un film malevolo sulla vecchia URSS, e di corriere che sono mucchi di ruggine tenuti assieme dalla vernice. Incomincia anche lo strazio dei rifornimenti di gasolio. I benzinai se ne stanno asserragliati in chioschi corazzati e comunicano con l’esterno attraverso feritoie di 15 centimetri per 20. Quelli più modernizzati invece usano un altoparlante che inonda l’area di servizio di urla incomprensibili. Il concetto di “pieno” – in russo polny – è a loro estraneo. Forse ha ancora troppe caratteristiche “borghesi” e, anche se si allunga una banconota da 1.000 rubli, cifra consistente considerando che la pensione media mensile di un operaio si aggira attorno ai 360 rubli, essi continuano a chiedere quanti litri vuoi. Comunque, fare rifornimento non è un grosso problema. Verso le 17 raggiungiamo il Don e sostiamo in un’ampia area dove si trovano una baracca-bar e numerose bancarelle che vendono pesce seccato. C’è sporcizia e fango ovunque. Sarà forse perché il cielo è grigio e sta piovendo, ma lo squallore è grande e la miseria pure. Verso le 19 entriamo nell’infinita periferia di Volgograd, questa enorme città che si allunga per 70 chilometri sulla sponda occidentale del Volga. Senza accorgercene quasi, ci ritroviamo in pieno centro e troviamo ospitalità per la notte in una piccola area di un benzinaio. Non ci chiedono un soldo per la sosta, ma il mattino dopo lasceremo comunque 50 rubli per il disturbo.

29/04 – Volgograd
Il clima è orrendo. Fa freddo e piove. L’accordo col benzinaio presso cui abbiamo dormito era che dovessimo muoverci presto e così siamo partiti alle 7. Dieci minuti dopo, ci ritroviamo già sulla Mamaev Kurgan, la collina-memoriale epicentro della battaglia di Stalingrado. Sulla sommità sorge la gigantesca statua delle “Madre Russia”, 72 metri, che brandisce una spada di ben 11 metri. Tutt’attorno, alla sua base, sono sparse lapidi in marmo che riportano i nomi dei reparti che qui combatterono. Più sotto, lungo il versante rivolto verso il Volga, è stato edificato un Pantheon circolare al cui interno una fiamma perenne rende onore ai 7200 soldati qui caduti. Una lunga scalinata scende al fiume delimitata ai lati da statue e muri sui quali sono rappresentati momenti della lunga battaglia. Lasciati i camper in un grazioso parcheggio nei pressi della grande statua, con un taxi, chiamatoci gentilmente da una pattuglia di polizia, ci rechiamo poi al Museo della Battaglia eretto nei pressi delle gigantesche rovine di un vecchio mulino, unica imperitura testimonianza degli eventi del 1942-43. Al secondo piano del museo, un enorme diorama a 360° riproduce quella che doveva essere la battaglia vista dalla Mamaev Kurgan. È vietato fotografare e filmare. Il centro della città è abbastanza piacevole e lungo la via principale, che come tutte le vie centrali delle città russe si chiama Ulitza Lenina o talora Ulitza Marxa, i negozi stanno iniziando a mostrare vetrine di tipo occidentale e quelli che vendono telefonini si sprecano. Numerosi sono anche i bancomat. Ma appena un po’ fuori dal centro si ripiomba nello squallore del fango, delle buche, delle case fatiscenti e degli scheletri dei vecchi edifici industriali abbandonati. Ceniamo in camper e passiamo la notte nel parcheggio sotto alla statua della “Madre Russia”, non senza aver fatto un giretto notturno fra i monumenti della Mamaev Kurgan fra i poliziotti e militari armati che presidiano l’area.

30/04 – Volgograd > Saratov – km 467 + 2 ore
Oggi tappa di trasferimento a Saratov. Giornata uggiosa con un paesaggio grigio e monotono, con tanto fango ai bordi di una strada malamente asfaltata, spesso francamente dissestata. Corriamo lungo il Volga, ma il fiume s’intravede a tratti. Per raggiungerne le sponde svoltiamo ad un cartello pubblicitario di un bar-caffè che, con tanto di ombrelloni e sdrai, ci fa sperare in una spiaggia sul fiume. Ma ci ritroviamo in un vecchio e malandato complesso vacanze sovietico che si affaccia sul Volga 30 metri sotto. I questo punto il fiume è così largo che non si riesce a vederne la sponda orientale. Qualche chiatta si muove pigra trascinata dalla corrente. Due foto e una ripresa, poi via di nuovo verso Saratov. La strada è in condizioni pietose. I rari parcheggi sono un mare di fango pieno di rifiuti di ogni genere fra cui spuntano minacciosi pezzi di ferro arrugginiti e infiniti cocci di bottiglia. I posti di ristoro non sono degni neppure di essere descritti tanto sono squallidi. Fra una buca e l’altra e continui posti di controllo, giungiamo a Saratov. Qui veniamo fermati all’ingresso in città al solito posto di polizia, ma anziché registrarci ci contestano la fantasiosa infrazione di “essere entrati in una città in cui è vietato l’ingresso agli automobilisti in possesso della patente italiana” (sic!). Da una “große” multa si scende a una “kleine” multa come riferisce il capoposto in uno stentato tedesco. Prendiamo tempo, ma quello si tiene i nostri passaporti. L’intervento di Sandra sblocca la situazione. Con decisione dice “ digli che non abbiamo bisogno di un parcheggio (autostoijanka) per dormire e che possiamo stare qui sino a domattina in camper, e che telefoneremo (telefony) ad un interprete (peredvocik) per capire meglio che sta succedendo…” Poi se ne esce stizzita dalla baracca. Non passa un minuto che il poliziotto ci riconsegna i documenti. Evidentemente le tre parole pronunciate in russo – autostoijanka, peredvocik e telefony – sono la chiave per liberarsi delle pretese assurde della polizia. Le useremo spesso durante tutto il viaggio, con l’aggiunta di posodstvo (amabasciata), riuscendo sempre a sottrarci a tutti i ricatti. A Saratov comunque, la polizia è decisamente corrotta. Mentre cerchiamo di raggiungere il luogo dell’atterraggio della capsula di Gagarin, veniamo nuovamente fermati. Davanti a noi c’è un giovane che, allungata una banconota al capoposto, se ne va senza problemi. Poi è il nostro turno. Il militare, quando scopre che siamo italiani, afferra il telefono e si mette a parlare con un non meglio identificato interlocutore (riteniamo che si sia messo in comunicazione col posto di blocco all’ingresso della città). La sola parola che comprendiamo è italianskji. Quindi ripone la cornetta e con un sorriso ci rende i passaporti. Ripartiamo sorpresi, ma soddisfatti: forse la lezione al primo posto di blocco è servita a qualcosa. E che sia servita, ce lo conferma il fatto che ad un terzo blocco non c’è neppure bisogno di scendere: mostriamo il passaporto dicendo italianskij e i poliziotti ci fanno subito andar via. Al quarto posto poi, sono così gentili che ci chiedono addirittura se abbiamo bisogno del loro aiuto per trovare la strada verso Samara. Potenza di tre parole e di un visto d’affari! Dopo aver girovagato a lungo nelle campagne attorno a Saratov e attraversato più volte il Volga, rinunciamo a cercare il luogo dell’atterraggio del primo cosmonauta dell’umanità e prendiamo a girovagare per la città in cerca di un posto dove passare la notte. Saratov è un brutta città dove condomini giganteschi e decrepiti fronteggiano casette di legno che, nonostante finestre ornate da vivaci cesellature in legno colorate di un brillante azzurro, non sono altro che capanne. Le strade secondarie non sono asfaltate e il fango regna sovrano. Gli enormi complessi industriali cadono in rovina semidistrutti evocando immagini da Seconda Guerra mondiale, anche se qui non è mai giunta. Con una certa difficoltà troviamo parcheggio in una vecchia e sporca area industriale cinta da alti muri orlati da filo spinato, proprio sulla sponda del Volga. I guardiani dapprima ci negano l’ingresso, poi con l’aiuto di un sedicente poliziotto in borghese che parla quattro parole di tedesco, spalancano i cancelli. Superata l’iniziale diffidenza, sono così cortesi da portarci anche a riempire i serbatoi dell’acqua. Ceniamo con gamberi del Volga acquistati lungo la strada. Piove a tratti e continua a fare freddo.

01/05 – Saratov > Ulianosk – km 634 + 2 ore
Tappa di trasferimento. Il tempo è pessimo. Piove e la temperatura non supera i 10 °C. La nostra meta avrebbe dovuto essere Samara con le sue belle spiagge sul Volga, ma a Vol’sk la polizia ci obbliga a una deviazione. Facciamo 90 km e il dubbio di aver superato il bivio per la città ci fa tornare indietro. Giunti nuovamente alla deviazione, la polizia ci annuncia che per raggiungere Samara bisogna passare da Ulianosk in quanto solo qui si può attraversare il Volga. Il ponte che da Vol’sk porta alla sponda orientale del fiume, e dunque a Samara, è pericolante ed è stato chiuso al traffico. Riprendiamo così la strada già percorsa e al tramonto siamo alle porte di Ulianosk. Sventato un tentativo di estorcerci danaro al solito posto di blocco, parcheggiamo in un’area custodita e decidiamo di andare a mangiare in un ristorante del centro cittadino, nonostante Sandra giudichi poco sicura la sistemazione dei mezzi. Saliamo su di un taxi collettivo, puzzolente di vodka e sudore, e veniamo investiti da una serie di insulti di un ubriaco. A bordo siamo in dieci, autista compreso, e di queste dieci persone almeno quattro sono ebbre, due da non reggersi neppure in piedi. Una signora anziana prende le nostre difese e ci spiega che l’ubriaco non ce l’ha con gli italiani ma con gli stranieri in genere, che rubano il lavoro ai russi. Evidentemente l’uomo si riferisce alle tante nazionalità che circolano in nella Federazione Russa: questa non è terra di emigrazione europea, almeno per ora. La città di Ulianosk, la vecchia Simbirsk dove nacque Lenin, è un bruttissimo agglomerato di palazzoni sovietici immersi in un mare di fango, condomini di un grigio sporco che non conoscono manutenzione dall’epoca della loro costruzione, sporcizia ovunque. Sta piovendo e le strade sono sommerse da spanne d’acqua. Il centro è talmente poco rassicurante che ci sediamo al ristorante solo dopo aver avuto la certezza di poter chiamare un taxi (un’auto e un non pulmino collettivo) per il rientro ai mezzi. Ottima cena in un locale degno dell’Occidente e al cui ingresso due buttafuori col fisico da orango, fanno buona guardia allontanando i molti ubriachi che gironzolano in zona. Al ritorno ci aspetta una sorpresa. I fari del taxi illuminano due ombre che armeggiano attorno all’Hymer, Luciano si scaraventa fuori dall’auto ma le ombre si dileguano, una saltando dal tetto del camper. Il nostro arrivo è stato provvidenziale, non hanno rubato nulla anzi, hanno perso anche un paio di scarpe che troviamo dietro al camper. I danni sono limitati alla rottura della maniglia della finestra di cucina che, stranamente, è ancora chiusa, come chiuse sono anche tutte le porte e le altre finestre. Forse è entrato dall’oblò. Ma la cosa più interessante è che i due ladri erano in azione nonostante la presenza di un posto di blocco volante di polizia proprio davanti all’ingresso del parcheggio. Strane coincidenze, perché anche il guardiano dormiva. Le sensazioni di Sandra erano corrette.

02/05 – Ulianosk > Jazykovo – km 590 + 3 ore
L’esperienza di ieri sera non ha lasciato segno. Ripartiamo decidendo però di evitare di passare la notte nella periferia delle grosse città. Visto di giorno, lo squallore di Ulianosk è tale che lo stesso Lenin si rivolterebbe nella tomba. Anche i villaggi che s’incontrano sono squallidi: catapecchie cadenti, fattorie collettive abbandonate dove porte, finestre, infissi, tegole e persino le travi del tetto sono state portate via. Sporcizia ovunque e fango, fango: la “rasputiza” dei russi. Il fango primaverile che permea tutto. Certo se ci fosse anche un po’ di asfalto, le strade dei paesi sarebbero un po’ meglio. E poi gli ubriachi. Tanti ubriachi che camminano barcollando. Talora sono così fradici da crollare a terra avvitandosi su se stessi come fagiani colpiti da una fucilata. E rimangono lì, dove sono caduti, sotto il sole o la pioggia. Oggi in Russia è un giorno di festa, la Festa di Primavera, ma gli ubriachi s’incontrano anche nelle giornate feriali dove non c’è nulla da festeggiare. E la vodka forse, è l’unico rimedio al vivere qui. Come dar loro torto osservando quanto li circonda? I posti di blocco sono asfissianti, come le pattuglie della polizia con in mano l’immancabile pistola radar. Verso Ufa, incontriamo un TIR turco e ci viene spontaneo suonare il clacson mentre lo sorpassiamo. Un gesto di saluto verso un autista sconosciuto che in quelle zone consideriamo quasi un fratello europeo. Miseria, centinaia di chilometri di miseria mescolata a fango. Attraversiamo un tratto di Tatarstan e poi giungiamo nella Repubblica dei baskiri dove le cose cambiano. La polizia è più cortese, meno presente. Il tenore di vita ci sembra più elevato. Le case non sono catapecchie cadenti, compaiono persino dei capannoni nuovi o in costruzione e gli edifici delle fattorie collettive sono ancora funzionanti e ben tenuti, non depredati come qualche chilometro indietro. Anche il fango ci sembra meno “fangoso”. Qua e là spuntano piccoli e moderni pozzi petroliferi. Sarà per tutto questo, sarà per un Amministrazione migliore, sarà per una differente indole della gente che vive qui – vi è una minoranza mussulmana di lingua turca – ma ci sembra tutto più piacevole. È ormai notte e ci fermiamo davanti ad una spartanissima trattoria con un ampio parcheggio dove solo alcuni tratti di asfalto ci impediscono di affondare nel fango. Con 2 € si mangia in quattro anche se in piatti di plastica, con un solo coltello e senza tovaglia. In compenso si paga prima di mangiare, come dai benzinai. Cade una pioggia battente e fredda.


03/05 – Jazykovo > Ufa > Abzakovo – km 397 + 3 ore

Alla luce del mattino l’area dove abbiamo passato la notte ha un aspetto da incubo. In primo piano, un enorme contenitore arrugginito pieno di rifiuti sul quale si posano corvi grossi come aquile; in secondo piano, una distesa di fango grigiastro intriso di nafta; in terzo piano, il lavabo “esterno” della traballante trattoria verso cui si stanno dirigendo due persone in tuta (ma dove avranno dormito?) con l’evidente scopo di sciacquarsi la faccia; sullo sfondo, una baracca sghimbescia che racchiude la latrina. Ma siamo nell’Europa del 2005 o dove? Con queste immagini negli occhi ripartiamo in direzione di Ufa, la capitale della Baskiria. La strada è discreta e ai soliti posti di blocco i poliziotti sono più cortesi e anche curiosi di visitare i nostri mezzi. Di “registrazione” non se ne parla neppure. La periferia della città ha un aspetto nettamente migliore rispetto a quelle sul Volga. Strade pulite, marciapiedi, niente “baracche”, né scheletri del passato industriale. Vi sono ovunque cantieri edili e si nota una certa attività lavorativa. I quartieri della zona sul fiume omonimo sono allagati, con l’acqua che arriva alle finestre, il che fa supporre che il maltempo di questi giorni sia un evento insolito. Parcheggiamo in un piazzale del centro e andiamo a dare un’occhiata. In una accozzaglia di stili quasi piacevole e tipica di qui, bei palazzi si affacciano su Ulitza Lenina. Un nuovo ed elegante centro commerciale è stato costruito al coperto in una vecchia galleria del secolo scorso. Fatichiamo un po’ a trovare il cottage di legno dove Lenin trascorse tre settimane durante il viaggio verso l’esilio in Siberia. Purtroppo è chiuso. Ufa è una città vivace, con gente cordiale. Tre giovanotti ci fermano per strada sentendoci parlare straniero e, appurato che siamo italiani, insistono per farci parlare al telefono con la madre di uno di loro che lavora in Sicilia a Capo Orlando. Sono felici del nostro colloquio con la loro madre. Strani questi baskiri. Ripartiamo decidendo di fare una deviazione a Magnitogorsk. La strada non è perfetta, ma neanche tanto brutta. Attraversiamo graziosi e ordinati villaggi che sorgono sui primi contrafforti meridionali degli Urali. Il paesaggio diventa montano. Pascoli verdi, mandrie di bovini e cavalli accompagnano la nostra marcia. Anche il tempo migliora e compare un timido sole. Dopo aver visto la Russia del Volga si può dire che la Baskiria sia una piccola “Svizzera”. Qui tutto è ordinato e non ci sono cumuli sparsi di immondizie. Procediamo fra chilometri e chilometri di boschi di conifere e altissime betulle dal bianchissimo tronco. Superata Berdiansk, una anonima cittadina industriale mussulmana, ci fermiamo nei pressi di Abzakovo, nel parcheggio di un elegante ristorante con bungalow di recentissima costruzione. Subito siamo l’attrazione di due famiglie di clienti cui non possiamo negare la visita dei mezzi seguita da brindisi finale a base di Limoncello. Poi cena al ristorante che ha come attrattiva anche uno splendido esemplare di aquila, purtroppo rinchiusa in gabbia.

04/05 – Abzakovo > Magnitogorsk > Celjabinsk > Kurgan – km 683 + 4 ore
Il maltempo ci segue implacabile, anche se oggi è solo nuvolo e non piove. Partiamo di buon mattino e quando superiamo il fiume Ural, siamo geograficamente in Asia. In breve raggiungiamo Magnitogorsk, la quintessenza dell’urbanistica industriale sovietica. Gigantesche ciminiere emergono da sterminati casermoni dormitorio grigi e cadenti, circondati a loro volta da un mare di garage costruiti alla buona con qualsiasi tipo di materiale. Nuvoloni di fumi avvolgono le ciminiere e i palazzi più alti spandendo un acre puzzo su tutta la città. Inutile descrivere lo stato delle strade cittadine, tutto buche. Fortunatamente le vie sono ampie pur avendo al centro le rotaie dei tram. Non vi sono salvagente alle fermate e la gente è costretta a salire e scendere sfidando il traffico. Magnitogorsk è stata chiusa agli stranieri fino agli anni novanta e sarà per questa ragione che i cartelli stradali sono pochissimi, anzi nel centro proprio non ce ne sono. Inutile chiedere informazioni ai passanti: costoro scappano non appena ti avvicini o non capiscono quelle quattro parole di russo che sappiamo (o fingono di non capire). In compenso da quando siamo in queste zone, i controlli di polizia e i posti di blocco sono diventati molto rari e non ci hanno ancora fermato. E, incredibile a dirsi, qualche poliziotto ci ha anche sorriso. Fatichiamo un po’ per uscire da Magnitogorsk, ma poi imbocchiamo la strada per Celjabinsk dove arriviamo verso mezzogiorno. Anche questa enorme città, chiusa agli stranieri fino a pochi anni fa, non brilla certo per bellezza. La solita squallida periferia percorsa da ammassi di grossi tubi che serpeggiano ai lati della strada come rettili che stanno mutando la pelle, tanto è lo stato pietoso di quella che un tempo avrebbe dovuto essere una copertura isolante, caseggiati del solito grigio sovietico e ammassi di piccoli e cubici garage con due colori predominanti: il grigio e il marrone sporco, ruggine, sarebbe meglio dire. È una città industriale. Qui venivano prodotti i famosi carri armati T34 e i razzi Katuscia. L’attraversamento di Celjabinsk è un incubo. Non ci sono cartelli e l’assessore al traffico o era ubriaco o folle. Sembra di muoversi in certi labirinti della Settimana Enigmistica. Ci fermiamo persino ad un posto di blocco per chiedere indicazioni. I poliziotti sono sorpresi da tanto ardire: qualsiasi russo attraversa la strada pur di non passare vicino a un poliziotto. Il loro aiuto ci porta ad imboccare la giusta direzione. E andando verso Osmk ci lasciamo alle spalle un mare di discariche a cielo aperto. Ora la strada corre diritta fra grigi acquitrini da cui si innalzano boschetti di betulle e abeti. Il fondo stradale è buono e si può viaggiare attorno ai 120 km/h anche perché la polizia è quasi assente e il traffico molto scarso. Taluni posti di blocco fissi sono deserti. La monotonia del paesaggio è ravvivata dalla presenza di numerose tombe ai lati della strada. Sono i ricordi degli incidenti stradali (in seguito ci diranno che in talune vi è sepolto persino lo sfortunato guidatore) come testimoniano i volanti contorti, le parti del motore o addirittura i pezzi di carrozzeria che vengono messi sul tumulo a mo’ di ornamento. A Kurgan, mezza città è sott’acqua. Decidiamo di andare oltre anche perché ad un posto di polizia fisso assistiamo ad una scena da film. Un auto forza il blocco, il poliziotto si aggrappa allo sportello e viene trascinato per metri e poi scaraventato a terra. Ma il poveretto non demorde. Si rialza e sale a bordo dell’auto davanti al nostro camper intimando al conducente di invertire la marcia e di seguire il fuggitivo. Degno di Hollywood! Il luogo non ci sembra l’ideale per una sosta notturna. Ci fermiamo dopo 30 chilometri in un posto ameno: un bosco di tralicci elettrici con un gigantesco ripetitore in primo piano. Non siamo soli, arrivano tre TIR turchi che ci fanno compagnia tutta la notte.

05/05 – Kurgan > Omsk – km 603 + 4 ore
Finalmente un bella giornata. Dopo un centinaio di chilometri di asfalto zeppo di grosse buche che ci obbligano ad un continuo zig-zag, giungiamo su strade in buono stato, senza posti di blocco fissi o polizia acquattata dietro alberi. Il paesaggio di laghetti azzurri e boschi di betulle che stanno mettendo le prima foglie è molto gradevole. Per un paio di chilometri un piccolo stormo di oche migranti tengono il passo col nostro camper. A mezzogiorno, arriva una foratura. La gomma posteriore sinistra dell’Hymer viene aperta nel mezzo del battistrada. Il gommista dice che è irreparabile o che, anche accomodata, non la potremo usare per più di 50-60 chilometri data la sede e la natura del taglio. Decidiamo di ripararla anche perché in 50-60 chilometri un gommista si trova sempre nel caso forassimo due gomme contemporaneamente. Il viaggio riprende tranquillo e prima del tramonto siamo parcheggiati in una polverosissima autostojanka alla periferia di Omsk. Cena in camper.

06/05 – Omsk > Kargat – km 590 + 5 ore
Il bel tempo ci assiste. Parcheggiamo a Omsk in pieno centro, ovvero fra Ulitza Marxa e Lenina, che sono i soliti nomi delle strade principali delle città russe. In U. Lenina sono ancora ben conservati gli edifici dell’inizio del secolo scorso, colorati con tenui colori pastello. Di pregio è il teatro che domina la via con le sue cupole verdi. Ciò che le guide non scrivono è che “fare una passeggiata nel centro di una città russa” significa pianificare accuratamente il tempo a disposizione. Le ulitze sono chilometriche e per attraversarle è meglio usare i sottopassi data la “sbadataggine” dei guidatori russi; in più, causa le pessime condizioni delle strade, è assolutamente doveroso guardare dove si mettono i piedi per evitare rovinose cadute come è successo a Sandra. Se poi tira vento, si sollevano tonnellate di polvere che non trovano altro di meglio che finire nei tuoi occhi. Ma a parte questi piccoli “inconvenienti”, passeggiare per Omsk è piacevole. Visitiamo anche una vecchia casa di legno, ora trasformata in museo, che accoglie una raccolta di dipinti (belli) di tal Kondraty Belov. C’è persino un ritratto del generale Kolciack, uno dei capi delle Armate Bianche che a Omsk avevano il loro quartiergenerale. Cosa impensabile fino a qualche anno fa. Dopo uno spuntino in un moderno locale, riprendiamo il cammino verso est. Uscire da Omsk si rivela un’impresa difficoltosa. Dobbiamo imboccare la M51, ma di M51 se ne dipartono due verso Novosibirsk e la nostra è quella più meridionale (la settentrionale non è neppure riportata sulle mappe occidentali; solo sul nostro atlante russo). Impieghiamo più di un’ora per trovare la via giusta, grazie anche alla mancanza di segnaletica e alla contorta urbanistica russa. La strada fila dritta, senza una curva, verso oriente fra boschi di betulle, pascoli e laghetti paludosi dove qualche uccello migratore è già tornato. Non si incontrano più villaggi, che rimangono lontani dalla strada cui sono collegati da tratturi fangosi che si perdono fra foreste e paludi. Stiamo viaggiando a fianco della Transiberiana, trafficatissima di treni merci. I posti di blocco della polizia sono in genere a 30-40 chilometri l’uno dall’altro. Non ci fermano né ci degnano di uno sguardo. Stiamo correndo a 110 km/h verso un altro fuso orario e così, verso le 19, ci fermiamo in una grande area di sosta per TIR. Non c’è asfalto, ma in compenso è fornita di calde docce nuove. Il locale è stupefacente per gli standard russo-siberiani: pavimenti di bianca ceramica, bagni profumati, lindi e moderni, docce confortevoli con asciugacapelli elettrici, servizio di manicure e parrucchiere. Un sogno, dopo tanto squallore. Anche il ristorantino ha pretese di eleganza e si mangia piuttosto bene. La Russia è sempre sorprendente.

07/05 – Kargat > Novosibirsk > Tomsk – km 485 + 5 ore
Un lungo rettilineo di oltre 100 chilometri ci porta a Novosibirsk, la capitale della Siberia. È un brutta città di oltre due milioni di abitanti, che si estende sulle rive del fiume Ob. Traffico caotico, binari del tram che si ergono come lame di rasoi dal piano stradale, rotonde gigantesche punteggiate da crateri, vecchie case in un centro in semirovina e cumuli di palazzoni grigiastri formano la Novosibirsk di oggi. Del tutto deludente. Ne usciamo a fatica e imbocchiamo la strada che porta a Tomsk, vecchio avamposto cosacco che nel 2004 ha festeggiato i 400 anni di nascita. Il traffico è scarsissimo e corriamo veloci fra boschi di conifere di un verde quasi nero. Arriviamo verso le 18. Finalmente una città che si presenta senza l’orribile periferia che abbiamo visto sino ad ora. Le strade sono in buono stato e la segnaletica conduce direttamente in centro. Sarà perché Tomsk è rimasta “isolata” dallo sviluppo sovietico essendo lontana dalla Transiberiana, sarà per i lavori di restauro del 400° compleanno, ma il suo centro è molto gradevole con i suoi palazzi rimessi a nuovo e le case di legno con le finestre orlate di decori intarsiati a vivaci colori. C’è una notevole animazione e, fra le varie vetrine, spicca persino un negozio di souvenir. Una variopinta folla, fra cui molti giovani dall’abbigliamento ricercato in stile occidentale, talora un po’ ridicolo, riempie marciapiedi e piazze. Parcheggiamo davanti al Museo delle Forze Armate dove passeremo la notte. Quindi cena in un ristorante molto elegante con musica dal vivo e cucina ottima. La “zuppa siberiana” si rivela un’autentica sorpresa: si tratta di “tortellini” in un ottimo brodo di carne.
Nota: oggi la polizia ci ha fermato solo un paio di volte, e più per curiosità che per altro. E quando i poliziotti scoprono che veniamo dall’Italia e che andiamo in Mongolia scoppiano a ridere, soprattutto quando si rendono conto che non parliamo russo.

08/05 – Tomsk > Marinsk > Emelianovo – km 525 + 6 ore
Impieghiamo più di un’ora e un quarto per uscire da Tomsk. Cerchiamo infatti una strada secondaria, come al solito non segnata sulle mappe occidentali ma presente nell nostro Atlante russo, che incrocia la M51 a Marinsk. Ci perdiamo due volte, ma infine troviamo la giusta direzione. La strada alterna tratti di manto vellutato a tratti in pessime condizioni. Poco prima di Marinsk, incontriamo finalmente tre bei villaggetti siberiani con le tipiche case di legno dalle finestre colorate di azzurro. Hanno il classico aspetto del villaggio di campagna. Sono poveri, ma dignitosi e straordinariamente puliti. Tornati sulla M51, ricompare il solito panorama di bottiglie, lattine e sacchi di plastica che spuntano ovunque sul ciglio stradale. Anche i villaggi sono cumuli di catapecchie. È nuvoloso e la temperatura non supera i 7 °C. Non c’è traffico. Nella zona di Acinsk l’orrore tocca il suo apice. Stabilimenti industriali che eruttano fumi nerastri, un abitato da “day after” che neppure il più fantasioso scenografo potrebbe inventare. È difficile persino descrivere quanto vediamo tanto è improbabile per la nostra mentalità coniugare in un tutt’uno il grigiore, la sporcizia, il decadimento, l’assoluta indifferenza per tutto ciò che ci circonda e il lasciare andare inesorabilmente ogni cosa alla malora. Un orribile disastro. Ci vorrebbe una immensa e pietosa gomma per cancellare questi obbrobri e rifare tutto da capo. Per fortuna siamo in Siberia e queste immagini sono mitigate dalla presenza di betulle e abeti ai margini della strada. Ma basta fermarsi in uno dei rarissimi parcheggi per ripiombare nella sporcizia. Le aree di sosta sono tutte invariabilmente delle vere e proprie discariche. Non si vedono neppure animali in questa terra che dovrebbe esserne ricchissima. Solo corvi, e in certi tratti neppure quelli. Ci fermiamo nei pressi di Emelianovo, 30 chilometri a ovest di Kranoiarsk, presso un Bar-Caffé. Un locale nuovo e pulito dove ceniamo bene. Diluvia.

9/05 – Emelianovo > Krasnojarsk > Kuskun – km 190 + 6 ore
Oggi splende un bel sole anche se la temperatura non supera il grado. Arriviamo prestissimo a Krasnoiarsk. C’è un notevole dispiegamento di forze di polizia, probabilmente legato alle celebrazioni del 60° Anniversario della vittoria nella Seconda Guerra mondiale che cade proprio oggi. Parcheggiamo a due passi dal centro e ci immergiamo nel flusso delle tantissime persone dirette alla sfilata commemorativa. Krasnoiarsk ci appare decisamente meglio delle altre città. Una periferia molto più pulita e dignitosa, strade ben asfaltate, una bella piazza circondata da moderni edifici sullo Jenisej, l’immane fiume siberiano che oggi splende di un intenso blu. Le strade sono inondate da canti patriottici trasmessi da altoparlanti a tutto volume. Veterani col petto scintillante di medaglie si mischiano a due ali di folla, ben ordinata sul marciapiede, che accoglie con applausi l’arrivo di americanissime majorette con tamburi. Poi passa quasi un’ora senza che nulla accada. D’un tratto, in lontananza, si affacciano due carri armati che, dopo aver percorso affiancati un centinaio di metri, svoltano a sinistra lasciando il pubblico esterrefatto. Pensando sia quello il percorso della sfilata, la folla rompe l’allineamento e, ignorati i numerosi poliziotti che si sbracciano nel tentativo di fermarla, come un sol uomo si dirige verso la strada imboccata dai due corazzati. La confusione è totale. Migliaia di persone si accalcano correndo verso non si sa bene dove. Anche noi seguiamo la corrente. Solo la comparsa di due elicotteri, che volano a bassa quota, fanno capire che il percorso della sfilata si trova sulla strada appena lasciata. E tutta le gente cerca di tornare alle primitive posizioni in un caotico e divertente dietrofront. Chissà se succedeva così anche durante il Regime? La sfilata riprende. Passano al passo dell’oca i reparti speciali, i paracadutisti, i giovani allievi di una Accademia militare che intonano una canzone cadenzata sulla marcia. Quindi sopraggiungono le Uaz con le bandiere di guerra dei vari reggimenti, i blindati in uno sferragliare assordante, enormi trattori con grossi obici e infine i moderni lanciarazzi Katuscia. Molti reparti indossano le divise dell’epoca. Al termine della parata una festosa, gigantesca confusione s’impadronisce della città. I civili si mischiano ai militari e ai poliziotti in un unico abbraccio caotico. Anche noi ci uniamo a quell’abbraccio: quando mai in Russia ci si può fotografare con un Kalashnikov in mano? E quando mai si possono scattare foto o riprendere soldati e poliziotti? Ma le sorprese a Krasnoiarsk non sono finite. Passeggiando lungo le rive dello Jenisej alla ricerca di una spiaggetta per raccogliere sabbia, ci imbattiamo in un tale che ci conduce ad un club privato sul fiume, dove alcune persone stanno facendo il bagno. È il Club dei Trichechi, formato da un gruppo di ardimentosi che non hanno paura di sfidare le gelide acque dello Jenisej anche d’inverno. Veniamo accolti in modo straordinariamente caloroso con tè e dolci. Una pediatra dell’università cittadina, che parla un po’ d’inglese, fa gli onori di casa spiegando la storia e le finalità del club. Quindi, con un invito che sa quasi di sfida, propone un bagno nel fiume. Sandra e Mariarosa accettano e così, infilati i costumi, ricevono il battesimo del club immergendosi nella acque la cui temperatura è di 3 °C (sic!) Poi una bella sauna ritemprante ed infine un altro giro di dolci e tè, compresi vino e una colomba offerti da noi, prima di prendere commiato da quella allegra brigata. È proprio vero, i russi sono dei gattoni diffidenti pronti a graffiarti, ma se solo ti avvicini per accarezzarli, si accoccolano per fare le fusa! Ripartiamo alla ricerca di una seggiovia che dovrebbe portare allo Stolby, un parco naturale fra rocce vulcaniche, ma dopo lunghe giravolte riusciamo solo ad approdare alla zoo. Un orribile lager in cui gli animali sono costretti in gabbie troppo piccole. Brevissima visita, quindi, sempre alla ricerca della seggiovia, infiliamo una valletta fra i monti che s’innalzano sulla riva orientale dello Jenisej. È una zona pittoresca, piena di dacie ben tenute e qualche radura sulla riva di un fiumiciattolo dove intere famigliole e gruppi di giovani fanno picnic. Dopo una quindicina di chilometri la strada finisce e della seggiovia nessuna traccia. Decidiamo di lasciare Krasnoiarsk e avviarci verso Irkutsk. Ci fermiamo per la notte presso un benzinaio nei paraggi di Kuskun, ad una cinquantina di chilometri dalla città.

10/05 – Kuskun > Razgon – km 379 + 7 ore
Questa mattina nevica e la temperatura esterna è di meno 1,9 °C. Il terreno è ormai coperto di qualche centimetro di neve, ma la strada è pulita. Siamo comunque contenti di questo capriccio del tempo che ci permette di avere un’idea della Siberia invernale. A Kansk, la nevicata diventa molto più fitta e anche l’asfalto comincia a imbiancarsi. Tuttavia si procede senza particolari difficoltà sino a quando non compaiono lunghi tratti di strada non asfaltata ricoperti di fanghiglia rossastra nella quale i mezzi quasi galleggiano. È la rasputstva, il fango russo, quello che ha fermato i carri armati tedeschi, e che si ripresenta ad ogni primavera e autunno. Un fango sabbioso, molliccio e tenero, che inghiotte i pneumatici. Le banchine laterali sono una trappola anche per veicoli relativamente pesanti. I TIR vi affondano letteralmente e, in caso di guasto, sono costretti a fermarsi in mezzo alla carreggiata. Procediamo così, a velocità ridotta, in un alternarsi di asfalto solcato da voragini che si continuano in corrugamenti simili a montagne, ed eterni tratti di strada senza manto dove le ruote sguazzano in un mare di fanghiglia. Il bordo stradale è indistinguibile. Viaggiamo al centro della carreggiata. Fortunatamente il traffico è molto scarso. Ogni tanto si supera qualche camion affondato sino ai mozzi. La tortura continua sino a Razgon, una località ben conosciuta dai camionisti diretti a Irkutsk sulla M53. Qui, ci si para davanti una colonna di TIR fermi. La strada corre parallela alla Transiberiana e in una semicurva in salita un grosso TIR blocca il traffico, immerso nel fango sino al pianale. Sono le 16,30. Sandra e Luciano, infilati gli stivali, vanno a dare un’occhiata. Ciò che appare ai loro occhi è irreale, allucinante: 200 metri di fango, che un aratro impazzito ha trasformato in un campo di battaglia della Prima Guerra mondiale, sono ciò che resta della M53. Nessuno avrebbe l’ardire di riconoscere una strada in quel mare di fango in tempesta. Ma è la M53. Mostrando l’atlante stradale, chiediamo ad alcuni camionisti se le strade secondarie siano una alternativa, ma quelli ci rispondono che non solo sono peggio, ma che talune sono addirittura chiuse. Non ci resta che tentare di passare attendendo il nostro turno. Continua a nevicare, anche se con minor spinta. Ogni autista s’arrangia. Nessuno dei curiosi, e sono parecchi, dà una mano. C’è un solo badile, uno solo (sic!), e due o tre traversine della ferrovia che, unite a qualche asse di legno, vengono utilizzate dagli autisti delle auto giapponesi per districarsi nel passaggio. Si formano grovigli che sa solo il Cielo come riescano a sciogliersi. I camion grossi sono bloccati, quelli medi tentano di passare ai lati del TIR affondato, ma restano al loro volta prigionieri della melma. Un camioncino, che trasporta sul pianale un piccolo furgone su cui è posta un’altra auto, cerca di infilare sotto le ruote motrici le traversine auto-sollevandosi con la gru che porta dietro alla cabina. Ci riuscirà dopo un’ora e più di lotta con l’aiuto di un grosso trattore comparso dal nulla. Poi è la volta del TIR affondato in mezzo alla strada. Sono TIR da 450 quintali. I cavi d’acciaio saltano come fili da ricamo e il trattore affonda a sua volta nel fango. È solo con l’intervento di un altro grosso camion che la morsa fangosa viene vinta. Davanti a noi, in testa alla colonna, si muove un altro TIR che però s’inabissa inesorabilmente dopo pochi metri. Ricomincia l’opera del trattore e del camion. Si va avanti così, camion dopo camion. In media occorre un’ora e mezza a veicolo. È ormai passata mezzanotte da un pezzo, quando anche il TIR che ci precede viene inghiottito in quella palude sulla M53. È un buio pesto. Decidiamo di riaccodarci alla fila e attendere la luce del giorno per tentare il passaggio. Accanto a noi sferragliano i convogli della Transiberiana. È un traffico continuo in un turbinio di neve.

11/05 – Razgon > Ceremcov – km 464 + 7 ore
Ci svegliamo all’alba. Abbiamo dormito poco ma bene, nonostante il continuo passaggio dei treni e delle auto che hanno superato la trappola di fango. Continua a nevicare e il paesaggio è completamente invernale. Sandra parte per una ricognizione. È tutto come ieri notte e non vi sono segni o tracce di interventi “ufficiali” per migliorare la situazione. I camion sono fermi in paziente attesa. Il trattore cerca di spianare con la pala le montagne di fango e gli spaventosi solchi lasciati da ogni TIR che viene estratto dalla palude. E in quei varchi, larghi non più di due metri, piccole colonne di tre o quattro auto tentano la sorte. Ma più della metà di esse si pianta e deve essere tirata fuori dal trattore. Comunque la situazione sembra più affrontabile: se ce la fanno le auto, forse ce la faremo anche noi. Partiamo e, superata la colonna di TIR, ci stiamo apprestando ad attraversare il mare di fango quando due camion, provenienti in senso inverso, occupano il passaggio e ci bloccano affondando loro stessi. Nulla da fare. Dobbiamo attendere che vengano rimorchiati fuori. Non avremo miglior fortuna quando toccherà a noi, ma con dieci dollari a camper il trattore ci trarrà dagli impicci. Felici di lasciarci alle spalle quella trappola, ripartiamo cercando di recuperare il tempo perduto. 18 ore per fare 200 metri. Da quel punto in poi, la M53 alterna tratti di buon asfalto a tratti sterrati, almeno tre o quattro, lunghi una ventina di chilometri ciascuno. Qui, i nostri mezzi avanzano in una fanghiglia grigio-rosso-giallastra alta una decina di centimetri, ma il fondo sottostante è compatto e solo in alcuni punti si corre di nuovo il rischio di impantanamento. Continua a nevicare e procediamo fra fitte foreste imbiancate attraversando villaggi semiaddormentati, tutto sommato abbastanza graziosi. In uno di questi ci fermiamo per acquistare il pane e, con nostra sorpresa, troviamo nel magazin, due donne intente a preparare una specialità tipica della Siberia: una specie di ravioletto, ripieno di carne, del tutto simile ai nostri tortellini. Ne acquistiamo un chilo. Nel primo pomeriggio cessa di nevicare ed anche la strada migliora notevolmente. Il panorama è abbastanza mosso, con boschi di betulle alternati a campi di stoppie, rari insediamenti industriali e qualche cittadina con la solita caratteristica mancanza di indicazioni stradali. Per decine e decine di chilometri avanziamo nel fumo degli incendi provocati per bruciare le stoppie. In qualche punto vecchissimi trattori stanno arando avvolti da stormi di corvi che si confondono col colore della terra. Sono le fertilissime terre nere, dove un’aratura profonda solo 10 – 15 centimetri è più che sufficiente a dare abbondanti raccolti. Colpisce la mancanza di fauna. Non si vedono i migratori che ci si sarebbe aspettato, a dispetto dei tantissimi laghetti e stagni e di quella enorme palude che diventa la Siberia in primavera. La natura stessa appare “ammalata”: chilometri e chilometri di scheletri anneriti di betulle spuntano come fantasmi da acquitrini grigiastri. Si ha la sensazione di una assoluta mancanza di rispetto per la natura e di un suo uso che ne diventa un abuso. Alle 19 ci fermiamo nel parcheggio di un ristorantino nei pressi di Ceremcov, in compagnia di due autisti che si trovavano con noi nel “fango”. Da qui in poi, ci assicurano, la strada è tutta asfaltata. Due chiacchiere e un brindisi con foto a ricordo della comune avventura nella rasputitza.

12/05 – Ceremcov > Irkutsk > Listvjanka – km 385 + 7 ore
Oggi splende un bel sole anche se non c’è più di un grado. La strada che ci porta a Irkutsk è buona e si snoda tra boschi e coltivi. In breve entriamo in una città che si presenta molto bene con una parte periferica dignitosa e non con il solito squallore. Il fiume Angara inoltre, la taglia a metà e permette un facile orientamento. Così troviamo subito parcheggio davanti alla cattedrale Bogoyavlensky dalla movimentata architettura e dai vivaci decori. All’interno vi è un ciclo di affreschi recenti fra cui un notevole Inferno. Si può filmare e fotografare. Poco lontano sorge la cappella cattolica polacca, dove uno sgarbato custode ci vieta, chissà perché, l’ingresso. Dall’altra parte della strada, si trova la chiesa Spasskaya ora trasformata in piccolo museo etnografico. Tutta questa vecchia area storica è schiacciata dall’enorme edificio grigio dell’ex quartiergenerale del Partito e oggi sede della Duma locale. Dietro al palazzone, sull’Angara, c’è il Sacrario ai caduti della Seconda Guerra mondiale cui prestano guardia d’onore ragazzine e ragazzini adolescenti in divisa paramilitare. Assistiamo al cambio della guardia effettuato con molta partecipazione al passo dell’oca. Più avanti un altro gruppo di giovani si sta esercitando a quel genere di marcia. Sul lungofiume lo sguardo spazia ampio sulla città, ovviamente non mancano ciminiere e varie brutture industriali, tra le quali un orribile edificio proprio a fianco della cattedrale. La piazza davanti alla Duma ha dimensioni veramente sovietiche: è talmente grande che per raggiungere l’opposta Ulitza Lenina bisogna prendere… le ferie. Ma in complesso è piacevole così imbandierata per le cerimonie del 60° della guerra. La stazione di Irkutsk è un gioiello nei suoi tenui colori pastello. È tenuta molto bene ed emana un misterioso fascino di avventura. Nel primo pomeriggio visitiamo il museo siberiano con la sua notevole raccolta etnico-storica le cui spiegazioni sono purtroppo tutte in russo. In compenso anche qui si può filmare e fotografare. Passeggiando per la solita strada del centro, Ulitza Marxa, colpisce la vivacità e la presenza di negozi pieni di merci, di pittori che espongono e vendono le loro opere sotto lo sguardo quasi compiaciuto di Lenin. Da un barbuto artista compriamo alcuni quadretti a cifre ridicole. Insomma la definizione di “Parigi siberiana” ben s’attaglia a Irkutsk. Ed è curioso notare come sul lungo fiume sia stata eretta anche una statua allo zar Alessandro III. I tempi cambiano. Facciamo due chiacchiere con un gruppetto di mormoni americani stupiti della nostra presenza quanto noi lo siamo della loro. Sono qui per fare proseliti: la Russia è ora terra di conquista. Lasciamo Irkutsk per il Baikal. Nessuna difficoltà a uscire e a trovare la strada per Lisitvjanka. Attraverso belle foreste di conifere e betulle si costeggia l’Angara, a tratti ancora ghiacciato, in continui saliscendi che mostrano scorci suggestivi nella luce del tardo pomeriggio. In breve siamo al lago. Gran parte della superficie è ancora ghiacciata e l’acqua libera ha l’aspetto e il colore che solo la temperatura di poco superiore allo zero riesce a creare. Listivjanka, a dispetto di quanto affermano le guide, non è granché. Anzi è proprio bruttina. La spiaggia, sassosa, è piena di cocci di bottiglie e di rifiuti di ogni genere, fra cui anche la carogna di un cane. Vi sono ancora i resti anneriti e bruciacchiati di fuochi d’artificio sparati chissà quando. Rottami di legno e ferro ovunque, cartacce e plastica. Anche le casette di legno non brillano per bellezza e manutenzione. Nuovi edifici in mattoni e altri in via di costruzione offendono la vista con i loro colori rosa shocking. Hanno la foggia di piccoli castelli, con torri dal tetto conico. Stonano alquanto in riva al lago. Ci sono ubriachi ovunque. Qualche banchetto vende souvenir ad un prezzo triplo di quello praticato nel negozio del museo siberiano a Irkutsk. E questa sarebbe “vocazione turistica”? Dalla sommità di una ciminiera con tanto di falce e martello ornamentali, fuoriesce una fumana nera a due passi dalla spiaggia. Perché il “Socialismo” deve essere necessariamente così brutto? Tre o quattro banchetti offrono pesce affumicato nei pressi del molo cui sono attraccati gli scafi colorati di alcuni grossi battelli. Le crociere sul lago ancora non si fanno, troppo ghiaccio. 200 metri al largo, le rovine di quello che era un altro punto di attracco: un ammasso informe nerastro di travi di legno stritolate dall’inverno. Ci parcheggiamo in un piazzale dove incontriamo un camion tedesco tipo “overland” di Brema. Sta facendo il giro del mondo. Ci scambiamo le impressioni di viaggio con l’equipaggio finendo col parlare della polizia russa. Loro hanno pagato qualche dollaro, noi ancora niente, per ora. Nel piazzale, in terra battuta, i resti di una pubblica toelette: un fossa di 7 – 8 metri di lunghezza per 3 di larghezza e fonda altri due, piena di immondizia. Ci sono ancora le assi con i fori dove le gente si accomodava per le fisiologiche necessità. È un bel biglietto da visita. Tuttavia, passeremo la notte in quel piazzale. Per fortuna un bellissimo tramonto ci fa dimenticare per un po’ lo sconcio del luogo. Un ultimo tocco di tristezza: all’ingresso del paese, tre orsi ingabbiati in una prigione troppo stretta per la loro mole, fanno da richiamo turistico infilando il testone in una specie di imbuto per afferrare il cibo che viene loro porto così da rendere possibile fotografarne il muso. Cose da medioevo. Non facciamo nessuna foto.

13/05 – Listivjanka > Timiliui – km 410 + 7 ore
Fa freddo questa mattina e il termometro segna a malapena 1 grado. Un solicello malato cerca di bucare una foschia che si trasformerà in un noioso grigio per tutta la giornata. Tornando verso Irkutsk, visitiamo un museo open-air di architettura abitativa russa locale. È molto grazioso e ben tenuto. Vi passiamo l’intera mattinata. Di fatto è una ricostruzione di alcuni tipici villaggi dell’area del Baikal. Al cimitero apprendiamo una curiosità. I corpi delle persone decedute durante l’inverno, vengono conservati sino al disgelo in una specie di camera mortuaria e inumati solo a primavera. Una cantante folk ci canta un’armoniosa canzone accompagnandosi con uno strano strumento a corda, che è un misto fra una chitarra e un’arpa. La voce è veramente bella anche se la canzone è molto triste. Dopo queste bucoliche visioni, lasciamo il museo e torniamo alla dura realtà dei villaggi siberiani odierni. La strada verso Ulan Udé si allontana dal lago inerpicandosi fra i monti in un continuo saliscendi curvilineo. Il fondo è discreto. Raggiunto un passo a circa 1000 metri di altitudine, dove c’è ancora neve ai bordi della carreggiata, si scende a precipizio verso il Baikal che appare quasi all’improvviso da un tornante. Ci fermiamo a un belvedere che domina dall’alto il lago. Lo spettacolo è deprimente. Sotto, c’è il misero e tetro villaggio di Kultuk con un enorme complesso industriale che deturpa un panorama già di per sé non esaltante. Mentre stiamo fotografando, con la coda dell’occhio notiamo un grosso e lungo fagotto di stracci poco sotto il muretto che separa il tornante dalla scarpata. Ci avviciniamo e, con stupore, riconosciamo il cadavere di un uomo (sic!). Siamo allibiti. È proprio un morto, freddo e stecchito. Ci consultiamo sul da fare. Avvisare la polizia? Avvertire il personale del piccolo bar che si trova qualche decina di metri più in alto? Decidiamo di allontanarci il prima possibile in quanto, non parlando la lingua e conoscendo la polizia russa, avremmo solo delle beghe. Tanto più che il morto è morto, e il nostro intervento non potrebbe di certo migliorarne la condizione. Così ripartiamo senza troppi rimorsi. La strada, per brevi tratti pessima, corre assieme alla Transiberiana costeggiando il Baikal, ma il lago, che da questa sponda è completamente ghiacciato, non si vede molto. Vi sono rarissimi punti di sosta, tutti rigorosamente sporchi, pieni di rifiuti di ogni genere e infestati da grossi topi. I villaggi che attraversiamo sono deprimenti, stretti fra la Transiberiana e la M55. Case fatiscenti e scheletri di industrie in rovina salutano il nostro passaggio. Entriamo nella Repubblica della Buriatia e, superato l’abitato di Timiliui, facciamo sosta per la notte in un bel parcheggio con ristorantino ricavato in un vagone ferroviario. Il luogo è carino, ma infestato da fameliche zanzare. Siamo nel delta del fiume Selenge, un immissario del Baikal che nasce in Mongolia. La meta si avvicina.


14/05 – Timiliui > Ulan Ude > Kiakta – km 370 + 7 ore

Costeggiando il Selenge e accompagnati dall’onnipresente Transiberiana, ci avviamo verso Ulan Ude, la capitale della Repubblica della Buriatia. Qui le condizioni appaiono migliori, c’è più pulizia e la polizia è decisamente più affabile. Per la verità, in tutta la Siberia la polizia è cortese e non pare così corrotta come nella Russia europea. Molti posti di blocco fissi sono deserti e in quelli presidiati si passa a volte senza neppure un accenno di controllo. All’entrata di Ulan Ude poi, dove ci infilano nel camper anche un cane antidroga, finisce tutto in allegria con foto ricordo dei poliziotti uno dei quali, agente delle forse speciali Omon, presta addirittura il suo mitra a Mariarosa. Stranezze della Siberia. Anche la capitale buriata si presenta bene. In breve parcheggiamo nella vasta piazza che ospita la testa di Lenin più grande dell’ex URRS. Il centro, con i suoi vecchi edifici ottocenteschi, memoria dell’epoca gloriosa dei commerci del tè, è gradevole. Passeggiamo nella solita Ulitza Lenina pedonalizzata dove, fra i vari bei negozi, spicca quello con la scritta ItalModa. All’interno in effetti ci sono prodotti italiani, ma il personale è tutto buriato. La gente è in gran parte di origine mongola. È cordiale e sorridente, a differenza dei russi che non riescono a scrollarsi dalla faccia la perenne seriosa imbronciatura. E non a caso gli ubriachi che incontriamo, a vari livelli di etilismo, sono in genere russi. La ulitza scende dolcemente verso la cattedrale che si staglia sullo sfondo del cielo grigio con i suoi colori bianco, blu e oro. È in via di restauro e non si può entrare. Facciamo colazione nella pizzeria Venezia, gestita da buriati che fanno una pizza tutto sommato discreta. Lasciamo Ulan Ude e ci avviamo verso il confine mongolo seguendo il corso del Selenge. Il paesaggio è una collinosa steppa ondulata, ricoperta dall’erba ancora bruciata dal gelo invernale. Le montagne sono imponenti dune sabbiose dal profilo dolce e arrotondato, che si perdono davanti ai nostri mezzi nel nulla. I villaggi sono molto dignitosi e puliti con mucche e cavalli che pascolano liberi. La strada è abbastanza ben tenuta, con cumuli di sabbia ai bordi. Evitiamo accuratamente la cittadina di Sino-ozersk dove sono frequenti le rapine, come ci ha consigliato di fare un camionista al parcheggio di ieri. In prossimità dell’ultima cittadina russa, compaiono fitte foreste di conifere e la strada si inerpica fra i monti in un susseguirsi di curve e tornanti il cui fondo porta ancora i segni del recente disgelo. In certi punti si viaggia su di una sola carreggiata. Il paesaggio è molto suggestivo, anche perché è spuntato un bel sole. All’improvviso compare uno strano rumore dal motore dell’Hymer, come un soffio aspirato che si accentua dando gas. Non riusciamo a capire che sia successo. Tuttavia il motore funziona e raggiungiamo Kiakta, il confine con la Mongolia. Sono ormai quasi le 18 e la frontiera chiude a quell’ora per riaprire domani alle 9. Chiediamo ospitalità ad un benzinaio a poche centinaia di metri dal confine e lì passiamo la notte. Il tempo peggiora rapidamente e inizia una tempesta di pioggia e vento. Quanto al “soffio” del motore, se ne riparlerà a Ulaan Baatar.

15/05 – Kiakta > Ulaan Baatar – km 385 + 7 ore
Ci alziamo presto, e alle 8 siamo in frontiera. Preceduti da qualche sgangherata auto con targa mongola, ci affianchiamo a due camion trasporto tronchi attendendo che alle 9 si apra il minuscolo cancello. In quell’ora di attesa succede di tutto. Auto e camioncini mongoli, passando fuori strada, su cordoli di aiuole, fossi e quant’altro sia stato posto per cercare di incanalare in modo ordinato i veicoli, ci sopravanzano creando un’ammucchiata indescrivibile di mezzi a ridosso del cancello. Ma il destino ha deciso diversamente. All’apertura della frontiera, Sandra a Luciano vanno a indicare i nostri camper al soldato e questi molto gentilmente fa segno di aspettare cinque minuti. Fa passare due auto russe e quindi ordina a tutta la massa di veicoli che ci precede di arretrare. Quanto accade è comico: l’intero groviglio di auto e camioncini arretra, con mezzi che si toccano, che si incastrano fra loro nei modi più assurdi per cercare di mantenere la posizione. Ma alla fine si apre un corridoio attraverso il quale passano i nostri mezzi. Come e perché ciò sia accaduto non lo sapremo mai. Una cosa è certa, non abbiamo allungato alcun dollaro al soldato. Chissà, forse è bastata la scritta Italia in russo? In frontiera i funzionari russi sono gentili più della loro pignoleria. Ci mettono a disposizione anche un interprete che parla inglese. Quindi è la volta della frontiera mongola. Qui, tutti sono sorridenti e cortesi e masticano qualche parola di inglese. Ci accompagnano nei vari uffici e riempire moduli su moduli. E alla fine siamo fuori. Sono le 12,30, quasi un record, considerando che c’è stato chi ha impiegato anche più di 24 ore. La strada che conduce a Ulaan Baatar è ottima. Ci immergiamo nel paesaggio mongolo: una steppa ondulata da cui si innalzano montagne dai profili arrotondati, mandrie di mucche e cavalli al pascolo, pecore e bianche gher in lontananza. I colori sono ancora quelli del tardo inverno, ma fra il giallo dell’erba compaiono già chiazze di un fresco e brillante verde. Sugli alberi le gemme delle nuove foglie. Tutto è molto pulito. Incontriamo i primi ovoo. Arriviamo a Ulaan Baatar (U.B. per i suoi abitanti e per noi occidentali) alle 18. La periferia è eterna, ma non così orrenda come quelle russe. C’è un traffico congestionato, privo di regole, caotico. Tutti si affannano a sorpassarsi l’un l’altro per poi incunearsi in giganteschi grovigli ai semafori. I clacson suonano in concerto. Ci fermiamo al Palazzo del Opera, nell’enorme piazza del Parlamento in attesa di Batbayar, l’agente turistico presso cui abbiamo noleggiato le jeep per muoverci in Mongolia. Egli ci ha anche riservato un parcheggio di tutto rispetto nel centro città. Dopo poco infatti, ci ritroviamo fermi nell’area riservata delle ambasciate di Polonia e Francia, in cui si trova anche il Corpo di pace ONU. È un’area protetta e sorvegliata dove ci viene fornita pure la corrente elettrica e l’acqua. Meglio di così? Festeggeremo in un ottimo ristorante mongolo. Sino a qui abbiamo percorso 11.073 chilometri.

 

16/05 – 30/05 - Mongolia

Il nostro programma prevede un volo nel deserto del Gobi da U.B. Qui, con un pulmino UAZ la visita della Valle delle Aquile con sua la Gola Ghiacciata, quindi una puntata alle Dune cantanti ed infine Bayanzag, il cimitero dei dinosauri. Dormiremo in campi di gher e siamo accompagnati da un interprete. Al ritorno a UB, ci aspettano due UAZ con le quali ci dirigeremo verso il Lago Khogsvul attraverso gli altopiani nord-occidentali, e successivo rientro a Ulaan Baatar passando per il parco del vulcano Khorgo Uul e il lago Bianco, facendo poi tappa a Kharakorim, l’antica capitale dell’Impero mongolo. Se si eccettuano i 385 chilometri che separano quest’ultima da UB, è un percorso tutto fuoristrada (2.500 km), lungo piste che spesso non sono nemmeno tali, con guadi e passi che metteranno a dura prova non solo le nostre ossa, ma anche le indistruttibili e scomodissime UAZ. Vedremo mandrie di cavalli e cammelli bactriani (a due gobbe), yak, aquile, avvoltoi, gru, lupi e un infinità di uccelli di cui non sapremo riconoscere la specie. Sarà un viaggio scomodo, duro attraverso gli immensi e affascinanti vuoti della Mongolia. Il diario di questa avventura è trattato a parte in altra sede.

31/05 – Ulaan Baatar > Kiakta – km 365 + 7 ore
Oggi inizia il ritorno verso casa. È una fredda giornata a UB, con vento e grossi nuvolosi neri che ogni tanto scaricano pioggia. Il traffico è ancora scarso. Abbiamo trovato la causa del “soffio” nel motore dell’Hymer: il tubo di aspirazione dell’aria del turbo è stato tagliato dal radiatore. Lo abbiamo riparato con nastro adesivo e, a maggiore protezione, abbiamo rivestito il nastro con stoffa coperta a sua volta da una lattina di birra tagliata a metà (questa riparazione si rivelerà molto efficace permettendoci di giungere sino a casa senza dover sostituire il tubo con quello nuovo che nel frattempo ci siamo fatti inviare a UB dall’Italia via aerea con DHL). All’uscita dalla città dobbiamo fermarci per fissare nuovamente il tubo del turbo con fascette metalliche, giunte anch’esse dall’Italia, in quanto le fascette di plastica messe in precedenza hanno ceduto al calore del motore. Un operazione di pochi minuti, quindi via verso la frontiera russa. Il tempo migliora e con un bel sole caldo siamo al confine verso le 14. Qui, la situazione è molto peggiore dell’andata: file di furgoni e auto mongole si accalcano per centinaia di metri prima del cancello lasciando presagire tempi eterni di passaggio. Ma anche questa volta le cose si mettono al meglio. Seguendo un pulman di linea russo sopravanziamo l’ammasso di veicoli e ci portiamo a ridosso dell’entrata. Andiamo a parlare con un militare e, dopo una ventina di minuti, riusciamo a entrare. Le formalità mongole sono celeri, mentre dalla parte russa i funzionari s’impuntano sul luogo di uscita dalla Russia da segnare sul foglio di importazione temporanea del camper. Vogliono farci uscire a Smolensk, considerato che abbiamo anche il visto per la Bielorussia. Spieghiamo loro che il nostro visto di affari ci consente di uscire da qualsiasi località e che non intendiamo essere vincolati alla frontiera bielorussa. Niente da fare. Come negli interrogatori del vecchio Nkvd, applicano il metodo della “cinghia”: al primo funzionario se ne sostituisce un secondo che rincomincia con le solite domande, con i soliti dinieghi e con l’uscita a Smolensk, e poi un terzo e così via sino a quando l’ultimo, constatato che manca un quarto d’ora alla chiusura della frontiera e che Sandra non demorde, decide segnare come località di uscita… il nostro indirizzo di casa (sic!). E così, dopo un’ispezione doganale che sa più di curiosa occhiata all’interno dei camper, fra strette di mano e sorrisi lasciamo la frontiera ed entriamo in Kjakta dove passeremo la notte dopo aver sostituito da un gommista un pneumatico del Benimar nel frattempo sgonfiatosi.

01/06 – Kjakta > Ulan Ude > Shamanka – km 598 + 7 ore
Kjakta è una graziosa cittadina, molto pulita anche se le vacche passeggiano per le vie del centro. Gli edifici, fra cui un grande chiesa ottocentesca in rovina, ne denotano la passata ricchezza di importante centro sulla via del tè. Tuttavia l’abbandono e l’incuria in cui versano talune aree ci ricordano che siamo tornati in Russia. La città è piena di caserme e di militari. La polizia, molto numerosa, comunque non ci degna di attenzione. Le betulle hanno messo già tutte le foglie e il paesaggio è un rigoglio di colori primaverili. Lungo la strada incontriamo anche una marmotta e due anatre mandarine. Tuttavia, anche se l’erba cresciuta ai bordi della carreggiata nasconde in parte i soliti rifiuti, e se gli alberi in fiore ingentiliscono il panorama ravvivando i villaggetti, non riusciamo a stemperare più di tanto la pessima impressione che abbiamo ricevuto all’andata. Superata Ulan Ude, arriviamo al Baikal. Il lago è privo di ghiacci ora, ma è sempre irraggiungibile se non attraversando i binari della Transiberiana. Oltrepassiamo miseri villaggi che né il bel tempo né le fioriture primaverili riescono ad umanizzare. A Baikalsk, una lunga fila di cartelli pubblicizzano pateticamente la fauna locale: lupi, orsi, cervi, ecc. Al tornante sul belvedere il cadavere è stato rimosso. Ci lasciamo alle spalle il lago senza eccessivi rimpianti e facciamo sosta per la notte nel parcheggio di un ristorante, nuovo e pulito, a circa 50 chilometri da Irkutsk, nei pressi della deviazione per Shamanka. Cena al ristorante.


02/06 – Shamanka > Irkutsk > Nizdeudinsk – km 630 + 6 ore
È una bella giornata e la Siberia ci appare più carina col vestito primaverile, ma i paesi che attraversiamo hanno sempre lo stesso squallore. La giornata è movimentata da divertenti episodi come il bagno di diesel che capita a Maurizio durante un rifornimento oppure quello di un automobilista distratto che parte senza aver tolto la pistola del carburante dal serbatoio. Ricompaiono i lunghi tratti di strada senza asfalto, ma per fortuna il fango è quasi secco e i pericoli di impantanamento sono molto limitati. Comunque la guida è dura e non consente distrazioni. Ci fermiamo per la notte nei paraggi di Nizdeudinsk, in un’area con ristorantino sul limitare di un bosco, dove un camion è imprigionato fino ai mozzi nel fango e il terreno tutto attorno mostra altre profonde ferite lasciate da TIR che si sono già trovati in quella scomoda situazione. Noi siamo su una zona solida. Dopo cena facciamo una passeggiata al vicino villaggio. Passano un sidecar e due Fiat russe scassate. Al limitare delle case ci ferma un tizio che con insistenza ci invita a bere qualcosa a casa sua Siamo perplessi, ma la curiosità di vedere cosa si cela al di là degli steccati e delle porte è grande e così scarpiniamo fino all’ultima costruzione in cui abita il nostro ospite. Entriamo e lo spettacolo offerto è rivoltante. In un sudiciume inverosimile, dove piatti sporchi e avanzi di cibo sono sparsi ovunque, si apre la stanza giorno in cui si trovano tre donne. Una di queste, una virago di un metro e ottanta per un centinaio di chili, salta sulle ginocchia di Luciano con intenzioni concupiscenti inequivocabili. Altro che timide Rusalki. (Luciano aveva già incontrato la donna al bar e le aveva scattato una foto polaroid assieme ai due piccoli nipotini, e forse è questo il motivo dell’invito) Rifiutiamo il terzo giro di vodka e l’invito a passare lì la notte. Ci sarebbe mancato solo quello. A fatica riusciamo a sottrarci da quell’insistente ospitalità. Quando siamo in strada è un buio pesto e i camper sono molto lontani. Senza torcia e con tutto quel fango sarà un’impresa raggiungerli. Ma la fortuna ci aiuta, e per caso otteniamo un passaggio da un rottame di 124 russa il cui conducente ha un alito altamente infiammabile. Ci dice di essere il sindaco del villaggio, anche se data la vodka che ha in corpo è difficile credergli. Protesta per lo stato delle strade dicendo che è tutta colpa di Putin. Quando siamo di nuovo ai nostri mezzi, gli offriamo un bicchiere di vino con la consapevolezza che potrà solo diluirgli il tasso alcolico nel sangue.

03/06 – Nizdeudinsk > Krasnojarsk > Divnogorsk – km 575 + 6 ore

Questa mattina il termometro segna 4 gradi sottozero e le pozzanghere attorno sono gelate. C’è il sole, ma durerà poco. Ci attendono circa 200 chilometri di strade pessime, con lunghi tratti privi di asfalto, altri ricoperti di fanghiglia, ora semisolida, e altri ancora sollevati in gigantesche pliche che sono il terrore delle coppe dell’olio e dei semiassi. Le buche non si prendono neppure in considerazione. Fanno ormai parte del sistema stradale russo. A tratti piove e incrociamo alcuni TIR che sono riusciti a piantarsi anche in piano. I loro autisti sono soli. Nessuno ovviamente li soccorre. Uscire da Kansk è un’impresa, ma dopo qualche giravolta raggiungiamo Kranojarsk. Qui, prendiamo la deviazione per Abakan nella Repubblica della Kakassia, risalendo lo Jenisej alla ricerca della grande diga che lo sbarra. Non riusciamo a vedere la diga (ma come si fa a non vedere una diga? Lo scopriremo domani) ma in compenso troviamo un eccellente parcheggio in riva al fiume, asfaltato e con un bel panorama. Qui, a Divnogorsk, stanchi morti dopo una giornata di guida massacrante, passiamo la notte.



04/06 – Divnogorsk > Acinsk > Berezovskij – km 602 + 6 ore
Il clima è orrendo. Piove, anzi diluvia. Finalmente scopriamo il perché non abbiamo visto la diga sullo Jenisej. La guida riporta che essa si trova a 16 chilometri da Krasnojarsk, 6 chilometri a sud del paese di Divnogorsk, scordandosi però che questa ultima località è posta a 45 chilometri dalla città. Dunque la distanza dalla città è 51 chilometri e non 16! Comunque arriviamo alla gigantesca diga al cui fianco è stato creato uno scivolo per far risalire le chiatte. È un opera imponente, che forma a monte un enorme bacino, chiamato il “mare di Krasnojarsk”, sulle cui rive sorgono stabilimenti balneari. Di ritorno a Krasnojarsk, ci fermiamo per rimpinguare la cambusa in un modernissimo centro commerciale appena fuori città. Ha tutte le caratteristiche di un centro commerciale europeo con la differenza che le scansie sono di legno grezzo e il pavimento in cemento grigio. Notevole l’assortimento di merci. Riprendiamo in direzione di Novosibirsk. La strada è buona con poche buche, sì che gli odierni 600 chilometri ci sembrano una passeggiata. Fra un diluvio e l’altro di pioggia, approdiamo al solito parcheggio con ristorante nei pressi di Berezovskij, dove trascorriamo una piacevolissima serata in compagnia di un gruppo di camionisti che masticano qualche parole d’inglese. Ci si scambiano doni souvenir e parecchi commenti sulla polizia. Basta pagare che chiudono non uno ma due occhi. Noi sino ad ora non abbiamo pagato nulla e siamo intenzionati a continuare così.

05/06 – Berezovskij > Kemerovo > Novokuznesk > Tal’menka – km 648 + 6 ore
Abbiamo deciso di raggiungere gli Altai lungo una direzione secondaria passando per Kemerovo e Novokuznesk. Le strade, poco trafficate e molto ben tenute, addirittura in taluni tratti a doppia corsia, consentono velocità attorno ai 120 km/h. Ed è proprio questa velocità che segna il display della pistola radar di un giovane poliziotto quando ferma l’Hymer capofila. Non sapremo mai il perché, ma il giovanotto, quando sente che non parliamo russo, si fa una gran risata e ci lascia andare. Misteri della Siberia! Arriviamo a Novokuznesk che, nonostante le ciminiere con cui si annuncia, ci riserva la bella sorpresa di un centro arioso e ben tenuto, dove si fanno apprezzare, anche per lo stile, le case anni 30 volute da Stalin. La piazza centrale ha un bel teatro neoclassico e verdi giardini dove passeggiare è piacevole. Qui, scambiamo due chiacchiere in francese con un giovanotto russo che, con la scusa di accendere una sigaretta, ci ha abbordati. È stupito della nostra presenza e ne chiede il motivo. Gli diciamo che siamo turisti e approfittiamo per ottenere indicazioni per raggiungere la cattedrale. Questa ultima è una delle più antiche della Siberia risalendo al XVIII secolo e i suoi colori, bianco e giallo, sono completamente diversi da quelli riportati sulla Lonely Planet. Quindi, o l’autore era daltonico oppure le chiese vengono ridipinte come se niente fosse. All’entrata, un individuo con lunghi e incolti capelli – che da noi sarebbe un cliente fisso del SIMAP – continua imperterrito a farsi il segno della Croce e a inchinarsi toccando il suolo con la mano. E così continua durante tutta visita alla cattedrale. Non solo, lo ritroveremo un’ora dopo ancora intendo a quello strano rito. Saliamo al forte che sorge su una collinetta proprio sopra la chiesa, e qui ci si para davanti di nuovo il giovanotto della sigaretta. Si qualifica come giornalista della TV regionale e chiede se può fare un servizio su di noi presentandoci anche il suo cameraman, una graziosa biondina che filma con un Canon digitale. Siamo stupiti e chiediamo il perché di tanto interesse. Risponde che a Novokuznesk quattro turisti italiani, molto avventurosi a suo parere, sono la notizia del giorno! Acconsentiamo e veniamo ripresi dentro e fuori dal camper dal cameraman mentre Slavà, così si chiama il giornalista, intervista Sandra e Maurizio. Peccato non poter vedere il servizio. Usciamo dalla città e chiediamo indicazioni al posto di polizia per la strada verso Bijsk. Ci informano che quest’ultima cittadina è irraggiungibile con i nostri mezzi passando per Kuzedeevo e Martynovo e che dobbiamo tornare indietro a Belovo da dove si può raggiungere la M52 per Barnaul. È una deviazione che comporta 200 chilometri in più, ma non rischiamo, anche se siamo ancora convinti che saremmo potuti passare. A Belovo, con molta difficoltà troviamo le indicazioni per Barnaul. Fortunatamente la strada è nuovissima, perfettamente asfaltata, e si snoda fra colline coperte di fitte foreste di abeti e betulle in una straordinaria sinfonia di verdi. Non riusciamo ovviamente a raggiungere la tappa prefissata, Bijsk, e ci fermiamo per la notte da un benzinaio nei pressi dell’abitato di Tal’menka.

06/06 – Tal’menka > Barnaul > Gorno-Altajsk > Cerga – km 400 + 6 ore
La mattinata comincia nel modo peggiore: il Benimar non parte! Non arriva carburante, e così cambiamo il filtro del diesel. Ma quando proviamo a rimetterlo in moto, il quadro dell’accensione non dà segno di vita. Con un telefonata in Italia col satellitare (in questa zona il cellulare degli amici veronesi non funziona) scopriamo che potrebbe essere un corto circuito prodotto dai cavi che segnalano acqua nel serbatoio e che sono attaccati proprio al filtro. Infatti è così. Dopo averli isolati, riusciamo a metterci in movimento. Ma la giornata ha preso una piega storta e perdiamo tutta la mattina a far acqua da un gentile benzinaio dove un rubinetto dà acqua a gocce. E finalmente ripartiamo in direzione di Barnaul. La strada è discreta anche se si snoda monotona in una campagna coltivata e soleggiata. Verso Bijsk notiamo la comparsa di parecchie farfalle che, superata la città, diventano una vera e propria “nevicata”. Ce ne sono dappertutto: a gruppi sui fiori, per terra a tappeto, in aria a nugoli e… spiaccicate sul muso del camper, una strage. Talora si viaggia immersi in una unica nuvola bianca. È uno spettacolo fantastico che durerà qualche centinaio di chilometri. Nel primo pomeriggio arriviamo nella Repubblica degli Altai. Solito controllo con registrazione al posto di blocco seguito dopo una ventina di minuti da un secondo alt operato da una pattuglia di polizia che ci contesta la mancata registrazione in entrata. Il capopattuglia inizia a scrivere i nostri dati su di un librone poi, quando gli facciamo notare il tipo di visto che abbiamo, telefona al posto di controllo fisso, quindi ripone il libro e ci rende i passaporti allungandoci anche… un rublo! Siamo allibiti, deve essere la prima volta che la polizia russa dà soldi ai turisti anziché estorcerli. Gli regaliamo due cassette di musica italiana. La strada corre fiancheggiando il fiume Katun dalle acque impetuose e limacciose. L’aspetto dei villaggi e dell’ambiente danno l’idea della cugina povera della Svizzera, comunque sempre un notevole passo avanti rispetto a quanto abbiamo visto sinora in Russia. Continuiamo a viaggiare immersi in nugoli di farfalle e facciamo una sosta presso un incredibile ponte di legno sospeso che attraversa il letto del fiume per un centinaio di metri. Una sbarra impedisce l’accesso ai mezzi alti più di due metri, ma le auto vi passano facendolo ondeggiare paurosamente. Altra sosta dopo pochi chilometri in un mercatino di artigianato locale dove facciamo qualche acquisto. Superiamo Gorno-Altajsk ormai al tramonto ed è inutile cercare il museo regionale che è già chiuso. Quindi procediamo sino a superare l’abitato di Cerga e ci fermiamo nel parcheggio di un minuscolo e grazioso ristorantino dove il proprietario sta preparando shashlik all’aperto. L’odore è molto invitante. Ceniamo in compagnia di una coppia russa che ci regala giganteschi e squisiti ravanelli. I shashlik sono deliziosi. Non abbiamo finito di cenare che compare una scassatissima e scoppiettante auto con a bordo otto giovani. Ci guardano con curiosità e s’allontanano lasciandosi dietro una puzzolente nuvola azzurrognola di gas di scarico. Non passa un quarto d’ora che l’auto ritorna rendendoci un po’ perplessi sulle intenzioni degli occupanti. Siamo soli e non si sa mai che possa accadere. Ma restiamo quasi commossi quando le due ragazze del gruppo scendono e porgono a Sandra e Mariarosa un mazzo di fiori di campo appena colti. I fiori sono la scusa per poter parlare con noi e per curiosare nei nostri camper. Davvero carini. Sono tutti di etnia altaica come testimoniano i loro lineamenti, tranne uno che, biondo e con occhi azzurri, tradisce l’origine russa anche se non lo vuole ammettere. Quello che sembra il loro capo, ci fa capire di essere un cacciatore di orsi. Sono felici fin quasi alle lacrime quando regaliamo loro una cassetta di musica italiana. Ci lasciano a stento dopo una mezz’oretta con la radio dell’auto a tutto volume che suona il nastro appena regalato. A coronare questa bella serata, ci alziamo a notte fonda per ammirare il cielo stellato. È un cosa mai vista, che ci lascia a bocca aperta. Batuffoli di stelle galleggiano nel buio fra lucentissime costellazioni che brillano di una intensità incredibile. Solo nel nord della Scandinavia abbiamo visto un cielo altrettanto bello. Ma forse non così.

07/06 – Cerga > Kosh Agach – km 376 + 6 ore
Percorriamo la strada che attraversa gli Altai fino al confine mongolo. È ben tenuta ad eccezione di brevi tratti privi di asfalto e piuttosto sassosi. Si snoda fra monti e valli di indubbio fascino. Procedendo verso sud, le vette s’innalzano progressivamente e diventano sempre più impervie, coperte da nevi perenni ad un centinaio di chilometri dalla Mongolia. La giornata è bellissima e la temperatura sale fino a 28 gradi. Si supera il passo di Seminskij a 1.200 metri di quota lungo tornanti che s’arrampicano sul fianco del monte e precipitano sull’altro versante in una valle di stupefacente bellezza, solcata da un fiumiciattolo cristallino. Con una certa sorpresa notiamo un impianto di risalita e piste da sci su di una vetta rotondeggiante a poca distanza dal passo. Cavalli e mucche pascolano liberi su questo breve altopiano coperto di boschi in cui occhieggiano qua e là ampie radure vestite di coloratissime fioriture primaverili. Più avanti si incontra di nuovo il fiume Katun le cui acque, decisamente color ocra, scorrono in un profondo e sinuoso canyon bordeggiato da verdissime praterie in un susseguirsi di panorami vertiginosi. Ora un ghiaione rossastro, ora una fitta foresta che scende da una vetta coperta di neve, fattorie solitarie unite al mondo da un ponticello che viene spazzato via ad ogni disgelo. Villaggi graziosi e puliti. Molte case in via di ristrutturazione. Poi un altro passo a 1400 metri, sorvegliato dal volo di aquile e nibbi. La presenza di animali è assolutamente straordinaria se comparata alla loro pressoché totale assenza nelle altre zone della Siberia. Ed in effetti gli Altai non hanno nulla a che vedere con la Siberia anche se ne fanno parte politicamente. È un altro mondo. Un improvviso temporale pomeridiano scarica una violenta grandinata che riusciamo ad evitare. Il paesaggio diventa decisamente alpino. In lontananza riusciamo a scorgere la vetta più alta, il Beluga, di oltre 4.500 metri. Attorno a noi si innalzano montagne dalle cime frastagliate coperte di neve. La valle si insinua fra i monti lungo il corso del fiume Ciuia stringendosi sino ad un imbuto che si apre in un’ampia prateria con laghetti ancora ghiacciati. Qui compaiono gruppetti di bellissime orchidee gialle del tutto simili a quelle viste in Mongolia. Mano a mano che ci avviciniamo al confine mongolo i prati verdi cedono ad un altopiano stepposo giallastro delimitato a est e a ovest da ininterrotte catene di bianche montagne. Ci fermiamo a dare un’occhiata a un cimitero mussulmano con la peculiare caratteristica di esporre l’effige del defunto sulle tombe. Evidentemente 70 anni di Comunismo hanno avuto i loro effetti. Per il resto è un tipico cimitero islamico, con bastoni che si innalzano dal tumulo sormontati da una mezzaluna luccicante nella luce del tramonto. La gente muore giovane da queste parti, come si legge sulle lapidi, che più che lapidi sono trespoli in ferro o legno. Alcune sepolture lasciano intravedere povere ossa riportate all’aria forse da qualche animale. Tuttavia il luogo è molto suggestivo: una conca sul versante orientale che si apre ad anfiteatro verso i monti a occidente per ricevere gli ultimi raggi di sole. Riprendiamo il cammino oltrepassando due gole rocciose dai colori che spaziano dal giallo all’ocra sino ad un rosso ramato che in taluni punti sfuma nel viola. La strada è per lunghi tratti sterrata e corre a livello del fiume. Poi, in un susseguirsi di laghetti salati di un blu intenso che contrasta col biancore scintillante dei bordi, arriviamo a Kosh-Agach, un villaggio povero, dove la miseria è stemperata dalla pulizia e dall’ordine. È un paesetto mussulmano in cui la cupola di latta della sua piccola moschea di legno si staglia rilucente sullo sfondo dei monti innevati. Rinunciamo a sostare qui poiché quanto ci offrono è la solita autostojanka. Continuiamo così per un’altra decina di chilometri sino a quando incontriamo un piccolissimo benzinaio sperduto nella steppa. Passiamo la notte qui. Davanti a noi solo le montagne che segnano il confine con la Mongolia. Ancora trenta chilometri e ritorniamo da dove siamo partiti.
Nota: questa frontiera sino al 2003 non era internazionale e per superarla bisognava ottenere un permesso speciale a Mosca. Ora è aperta al traffico come ci ha confermato una funzionaria dell’Ambasciata polacca a UB. Ma attenzione, sul lato mongolo ci sono solo piste.

08/06 – Kosh-Agach > Bijsk – km 558 + 6 ore
Oggi comincia ufficialmente il ritorno. È una giornata splendida e forse quella in cui avremo la maggior escursione termica: dai 0 gradi del mattino ai 30 del primo pomeriggio. Ripercorriamo a ritroso il cammino fatto ieri ed è straordinario notare come cambino i panorami al variare della posizione del sole. Stamani l’abbiamo di spalle e sembra di viaggiare in un’altra valle. Andiamo con calma facendo parecchie soste per foto e filmati. Ci fermiamo per un pic-nic sulle sponde di un torrente. Il luogo sarebbe stupendo se non fosse per la sporcizia. Rifiuti ovunque. È assolutamente incredibile l’indifferenza, se non il disprezzo, dei russi per ciò che li circonda. C’è persino il monoblocco arrugginito di un motore d’auto. Al passo di Seminskij incontriamo una giovane coppia di tedeschi di Friburgo che sta facendo il giro del mondo in moto. È un peccato non essere riusciti ad immortalare la loro espressione quando hanno visto arrivare il muso dell’Hymer. Facciamo due chiacchiere bevendo un caffè italiano. Sono diretti a Vladivostok da dove s’imbarcheranno per il Giappone e poi l’Australia. Beati loro! Facciamo sosta per la notte appena superato il posto di blocco a Bijsk, nel parcheggio di un nuovo ristorante dove consumiamo anche un’ottima cena.

09/06 – Bijsk > Kargat – km 530 + 5 ore
Noiosissimo e afosissimo trasferimento sino a Kargat dove pernotteremo nella stessa area, fornita di docce pulite e calde, dell’andata. La strada è un lunghissimo rettilineo che solca campi coltivati a grano interrotti a tratti da boschetti di betulle. Le solite tombe ai bordi della carreggiata, particolarmente numerose nel tratto Barnaul – Novosibirsk. Fa molto caldo. A pochi chilometri da Novosibirsk, facciamo una sosta a Akademgorodok, la città creata ex novo per gli scienziati sovietici. È un altro mondo: lunghi viali alberati, edifici molto dignitosi e curati, assenza di obbrobriosi casermoni, pulizia e ordine. La cittadina s’affaccia sul “mare di Ob”, una gigantesca distesa di acqua creata dallo sbarramento del fiume stesso. È un giornata calda, invitante per un bagno, e così assistiamo ad una sfilata di graziose russe che si dirigono in bikini verso le spiagge del “mare”, incuranti di essere nel centro della città. Transitiamo sulla diga dove attraenti ragazze vendono pesce appena pescato. Oggi la città è avvolta da una cappa di smog davvero notevole: e in Italia ci lamentiamo delle polveri sottili? Usciamo questa volta senza alcuna difficoltà e procediamo sino a Kargat. La strada mostra i consueti panorami che ora sono molto più verdeggianti. Di vita animale neppure l’ombra, tranne aggressivi mosconi, del tutto simili a tafani, che invadono il camper appena si apre qualche fessura. Cena e doccia in compagnia di nugoli di camionisti.

10/06 – Kargat > Izim – km 793 + 5 ore  
Oggi è più ventilato ed il caldo si sopporta meglio. Incontriamo un camper tedesco con a bordo una coppia anzianotta in compagnia di un Rottweiler. Hanno rotto il motorino di avviamento e stanno aspettando che apra un meccanico per ripararla. Nel pomeriggio arrivano temporali che rinfrescano un po’. Incrociamo un pick up tedesco che si sta dirigendo a Omsk. Il panorama non muta molto, anche se i rifiuti sono coperti dall’erba alta. Ma basta fermarsi un attimo per rendersi conto che non sono spariti. Alle 20, ma in realtà sono le 19 per il cambio di fuso orario, approdiamo da un benzinaio civile, in stampo europeo. Niente gabbiotto blindato con cassetto: si paga con carta di credito entrando all’interno dove c’è una discreta mercanzia. Siamo poco dopo Izim, allo stesso incrocio dove nel viaggio di andata facemmo riparare la gomma dell’Hymer. Giretto a piedi nel vicino villaggio in compagnia di fameliche zanzare.


11/06 – Izim > Tijumen > Tobolsk – km 570 + 4 ore
Non si può lasciare la Siberia senza aver visitato Tobolsk, la sua più antica città. Facciamo così una deviazione di qualche centinaio di chilometri, anche perché la strada é in buono stato (ad eccezione dei soliti lavori in corso a senso unico alternato la cui cadenza è lasciata alla fantasia ed educazione degli automobilisti, molto scarsa in Russia). Superata rapidamente Tijumen, e limitata al minimo la pausa pranzo per via di giganteschi e aggressivi mosconi, arriviamo a Tobolsk nel primo pomeriggio. Con facilità parcheggiamo davanti al Cremlino, una bella costruzione difensiva eretta nel XV secolo sulla sponda alta del fiume omonimo, ancora ben conservata e tenuta, le cui bianche mura turrite ne fanno una piccola Carcassonne siberiana. Al suo interno è in corso un Festival di musiche folcloristiche siberiane in cui si esibiscono gruppi in costumi tipici. Una vera fortuna. Uscendo, ci ferma una giornalista della radio regionale di Tobolsk che ci strappa un’intervista. Poi riusciamo a trovare l’abitazione di MimSeim, un originale ed estroverso artista che intaglia sculture su ossa di animali. Riusciamo a comperarne alcune vincendo le sua resistenza anche con l’aiuto di Elena, una giovane donna siberiane che parla un ottimo inglese avendo vissuto 6 anni a Londra. Qui ha conosciuto un ebreo iraniano, Jacob, che è diventato suo marito e col quale ora gestisce il ristorante del Museo di Storia di Tobolsk. Finiamo la serata in loro compagnia, a cena al ristorante, e qui scopriamo che l’ottimo cappuccino che ci offrono viene fatto con una macchina e con caffè SAECO. Incredibile. Passiamo la notte vicino al Cremlino.

12/06 – Tobolsk > Ekaterinburg – km 562 + 3 ore
Ritorniamo verso Tijumen facendo una sosta a Pokrovskoe, il paese natale di Rasputin. La casa dove nacque è stata demolita e il paese si trova nelle stesse condizioni di allora, almeno a giudicare dallo stato delle strade. Sono un acquitrino fangoso dove le ruote dei mezzi affondano. Dopo qualche centinaio di metri, desistiamo dal procedere oltre. A Tijumen ci fermiamo a fare un po’ di spesa in un affollato edificio dove tutti i negozi espongono le stesse merci. L’iniziativa russa lascia alquanto a desiderare e non brilla di fantasia. Come all’ingresso delle città quando ci si imbatte in soggetti, in genere donne vecchie, che vendono tutti lo stesso tipo di oggetto o di cibo o verdura. Poco dopo Tijumen la strada diventa pessima per lunghi tratti. Con l’arrivo poi di un violentissimo temporale le cose si fanno ancora peggiori. Comunque raggiungiamo Ekaterinburg nel tardo pomeriggio e ci fermiamo a ridosso della città nel parcheggio di due baraccotti che fanno shashlik. Dopo cena, mentre passeggiamo, un coppia affacciata a un balcone ci saluta e fa cenno di salire in casa loro. Siamo perplessi, ma poi l’uomo, che nel frattempo è sceso in strada, ci convince. La casa è in via di ultimazione e i nostri due ospiti ci mostrano con orgoglio quel monolocale in cui vivono dalle pareti rivestite di carta da parati, il frigorifero modello americano Samsung e… il bagno con la vasca. Non sappiamo perché ci abbiano invitato, forse era per mostraci che anche la Russia sta cominciando ad avere comodità di tipo occidentale. A fatica prendiamo commiato dopo numerosi giri di vodka e dolci offerti dai padroni di casa. Un’altra curiosità: devono vino francese.

13/06 – Ekaterinburg > Suksun – km 288 + 3 ore
Mattinata dedicata alla visita di Ekaterinburg. Iniziamo lungo la solita centrale Ulitza Lenina con il suo laghetto e il giardino geologico un po’ maltenuto. Quindi in taxi raggiungiamo il monastero eretto nel luogo dove sorgeva la casa Ipatev, demolita da Eltsin, in cui venne fucilato lo zar Nicola II e la sua famiglia. È un complesso sfarzoso dove domina l’idolatria. False lapidi tombali con i nomi dei fucilati sono appese a pareti di marmo chiaro; un’icona troneggia con i volti dei componenti della famiglia incorniciati da aureole dorate. Li hanno già santificati. Vendono pure un pugno di terra che forse ricoprì le ossa di quegli sfortunati. È una cosa insopportabile. Torniamo alla piazza centrale e, davanti alla Duma veniamo fermati a piedi da tre zelanti poliziotti che ci contestano la mancanza della registrazija. La questione si risolve in pochi minuti quando facciamo notare loro il tipo di visto. Se ne vanno confusi e sconcertati. Da noi sarebbe impensabile fermare un pedone e chiedergli i documenti senza motivo. Come pure sarebbe impensabile che un tassista vada a far benzina col cliente chiedendogli di anticipare i soldi per pagare il carburante. Ma anche questo capita in Russia. Ed infatti, con quello stesso taxi del rifornimento ci stiamo recando al Memoriale che ricorda le 25.000 vittime locali delle purghe staliniane. Il luogo è deserto e decisamente incolto. Evidentemente di quelle vittime nessuno s’interessa più di tanto. Bellissimo e toccante è invece il monumento che ricorda i caduti della guerra in Afghanistan. Una gigantesca statua di soldato, color piombo argentato, che siede affranto e spossato a terra appoggiandosi al kalashnikov, col capo reclinato fra le gambe. Lo stile è tipicamente da realismo socialista, quantomeno per le dimensioni, ma è stemperato da quell’atteggiamento di profonda stanchezza e sconforto così lontano dalle pose eroiche e di sfida dei monumenti dell’ex URRS. Insomma, c’è retorica, ma in negativo: il soldato sembra chiedersi “ma che abbiamo combinato? Non ne posso più…” Sotto un diluvio d’acqua torniamo ai mezzi, ma non facciamo tempo ad infilare le chiavi che con uno stridio di freni si para davanti all’Hymer un’auto della polizia. “Fuori i documenti” ordinano. “Che è successo?” chiediamo noi. Scopriamo di aver parcheggiato i mezzi di fronte ad una caserma il cui comandante ha passato qualche ora d’inferno vedendo due veicoli stranieri, completamente chiusi, parcheggiati al di là della strada proprio davanti alla carraia della sua caserma. Il terrorismo ceceno è sempre in agguato. Lo stesso comandante viene a raccogliere i nostri dati e tutto finisce lì con una stretta di mano e con la polizia, sorridente e visibilmente sollevata, che ci scorta a parcheggiare nella vasta piazza davanti alla Duma. Regaliamo un bottiglia di vino italiano ai due poliziotti. Fra un acquazzone e l’altro facciamo un giretto in un mercatino delle pulci dove acquistiamo una presso-fusione del profilo di Stalin del 1939. Poi ci rifugiamo nei magazzini GUM. Niente di speciale, solo piuttosto puzzolenti. Ripartiamo da Ekaterinburg cercando il confine fra Asia e Europa ma il tempo pessimo ci fa desistere; quindi ci avviamo verso Perm. La strada è di certo fra le peggiori che abbiamo percorso da quando siamo entrati in Russia. Sembra che un gigantesco erpice vi sia passato sopra affondando e grattando con i suoi denti cemento e asfalto. Il risultato è una carreggiata ridotta ad una scogliera acuminata dove per lunghi tratti è molto meglio procedere sulla corsia di sosta che, pur non essendo asfaltata, rappresenta sempre un minor pericolo per i pneumatici. La tortura dura per oltre 250 chilometri. Ci fermiamo nei pressi di Suksum, in un parcheggio in riva ad uno stagno, asfaltato (sic!) e con poche zanzare.

14/06 – Suksum > Perm > Selicka – km 460 + 3 ore
La giornata è nuvolosa e pioviggina, ma la cosa non ci disturba molto. Dobbiamo infatti visitare le grotte di ghiaccio (Stalagmit) nei pressi di Kungur e quindi che piova o meno siamo sempre al riparo. In breve raggiungiamo la più orrenda cittadina che abbiamo incontrato nel nostro lunghissimo viaggio in Russia. Lo squallore, la desolazione, l’abbandono e il disfacimento dell’abitato sono indescrivibili: solo andando di persona ci si può rendere conto dello strazio che è Kungur. E dire che ci hanno fatto anche un congresso mondiale di Geologia. Nonostante il grande cartello che pubblicizza le grotte, con tanto di mappa per raggiungerle, trovarle è un’impresa sovrumana. Ma alla fine ci ritroviamo nell’unica bella area di Kungur: il parcheggio e l’ingresso alle grotte. Si entra accompagnati da una guida che dà spiegazioni solo in russo, anche se per la verità ci hanno fornito di un registratore che narra la storia delle grotte e le loro caratteristiche in inglese. È una passeggiata di tre chilometri. All’inizio si cammina nella parte permanentemente ghiacciata, dove la temperatura varia fra meno – 2 e – 15 °C a seconda le stagioni. Al momento siamo attorno ai – 8. Le sculture formate dal ghiaccio sono affascinanti. Ma qualche cosa non funziona nell’impianto di illuminazione e restiamo per lungo tempo nel buio totale, immobili aspettando al freddo che torni la luce. L’area ghiacciata si continua con una lunga zona a temperatura più elevata, dove è presente anche un laghetto in cui vivono primordiali forme di gamberetti. All’uscita acquistiamo un pezzetto di Selenite, il gesso di cui sono fatte le grotte. Ci avviamo quindi verso Perm, non senza qualche difficoltà ad uscire da Kungur. La strada è un po’ meglio di ieri e in poco tempo arriviamo in città. Impiegheremo oltre un’ora e mezzo per riuscire a lasciarla sia per la totale mancanza di segnaletica, sia per i mostruosi ingorghi di traffico per i quali Perm è famosa in tutta la Russia. È una grande cittadona piena di case di legno malmesse, palazzoni che hanno visto tempi migliori, condomini di Regime, rotaie del tram sopraelevate dal piano stradale, filobus cadenti e, per finire, grandi viali alberati in cui letteralmente nevica la fioritura delle piante. Un posto ideale per asmatici e allergici. Del traffico meglio non parlare, basti dire che parecchi automobilisti superano le code ai semafori salendo sui marciapiedi o infilando semplicemente i percorsi riservati ai tram con tanto di paletti e catene che li delimitano. E la polizia? Ogni tanto ne ferma qualcuno. La sola cosa che viene rispettata è il rosso ai semafori, il resto è corte bandita. Lasciato l’incubo Perm, ci avviamo verso Kazan. La strada è spesso malmessa, controllata da decine di pattuglie con l’immancabile radar. In un tratto di 80 chilometri ne contiamo 16. Si viaggia in un panorama ondulato di pinete e pascoli con tutte le possibili sfumature di verde. Oltrepassiamo villaggi più o meno grandi, ma tutti composti dalle solite casette di legno che, come il pane, sono uguali in tutta la Russia. Evviva la fantasia. Ci fermiamo poco dopo l’abitato di Selicka presso un ristorantino in riva ad un laghetto. Qui, abbiamo appena finito di cenare, quando arrivano dei musicanti con strumenti ed amplificazione. La musica parte al massimo livello. Decidiamo di trovare un altro posto per poter dormire in pace. E così, ripartiamo fermandoci 10 chilometri dopo in un bello spiazzo sul limitare della pineta. Sembra un luogo meraviglioso, ma quale delusione quando si mette piede nel bosco: rifiuti ovunque, d’altronde siamo in Russia… l’avevamo scordato per un momento.

15/06 – Selicka > Kazan – km 440 + 2 ore
Siamo all’ultimo giorno di viaggio, nel senso che con Kazan si esaurisce la fase turistica e inizia la galoppata di rientro in Italia. Dopo 440 chilometri sudati, con il solito difficoltoso attraversamento di una grossa città, Iževsk, dall’urbanistica assurda, approdiamo a Kazan, la capitale della Repubblica del Tatarstan. Un conglomerato di appariscenti grattacieli si profila all’orizzonte, ma quando entriamo in città le ampie vie e le architetture curate ci fanno scordare quasi di essere in Russia. Sarà perché qui l’etnia dominante è tatara? Troviamo facilmente un parcheggio custodito ai piedi del Cremlino, uno dei più belli di tutta la Russia. Ed è grande la nostra sorpresa, una volta entrati, quando ci ritroviamo immersi in un gigantesco cantiere. Per la verità, tutta la città si sta rifacendo il look. D’altronde quest’anno ne ricorre il Millesimo anniversario di fondazione. Così, saltellando da una pavimentazione all’altra, arriviamo fino alla moschea ormai in via di ultimazione. È stata ricostruita da maestranza turche nelle stesso luogo ove sorgeva quella distrutta da Ivan il Terribile. Visitare una città i cui edifici e monumenti sono in via di restauro e rivestiti da impalcature, in genere non è la massima aspirazione del turista, ma questa volta per noi è diverso. Dopo tanta rovina e incuria, vedere tornare a nuova vita muri, cupole e facciate di edifici fa un piacere enorme. E così non si può che apprezzare lo sforzo che stanno facendo per riportare agli antichi splendori le bellissime architetture dei palazzi di fine Ottocento del vecchio centro di Kazan. Certo, appena dietro l’angolo, la Russia è ancora presente con tutte le sue brutture e decadenze, ma la vista dei cantieri lascia ben sperare. Curiosa è una statua di un insolito Lenin, abbigliato come un dandy, che si trova nella centralissima e pedonalizzata Ulitza Lenina. Qui è arrivato anche l’Occidente con MacDonald e altri marchi famosi. Ceniamo molto bene in un ristorante turco.
Nota: da qualche giorno non ci fermano più ai posti di blocco. Tempi nuovi?


16/06 – Kazan > Niznij Novgorod > Vladimir > Lakinsk – km 647 + 2 ore
Ci lasciamo alle spalle Kazan avviandoci a ovest verso Mosca. La monotonia del viaggio viene interrotta dalla polizia che ferma l’Hymer capofila contestando l’assurda velocità di 77 km/h quando il limite è 40. Facciamo notare che marciavamo incolonnati all’ingresso del paese e che era materialmente impossibile andare alla velocità segnata dal display del radar, ma il poliziotto non demorde. Vuole vedere anche la patente internazionale. Poi arriva Sandra che gli urla in russo le solite quattro parole – telefono, interprete, mosca, ambasciata – e quello ci rende i documenti con un sorriso. Riprendiamo il cammino e superiamo Niznij Novgorod. In questa zona va di moda vendere lampadari lungo la strada. Incontriamo continui cantieri stradali che rallentano alquanto l’andatura. Le aree di sosta sono rare e malmesse come al solito. Ne troviamo una verso le 22 poco dopo Vladimir nei pressi di Lakinsk. Non è asfaltata, ma in compenso uno spesso strato di ghiaia impedisce di affondare nel consueto fango. Dalla vicina M7 proviene un rumore infernale.

17/06 – Lakinsk > Mosca > Velikie Luki > Novosokol’niki – km 681 + 2 ore
Dobbiamo decidere se rientrare attraverso la Bielorussia oppure la Lettonia. Il dubbio viene fugato subito quando ci accorgiamo che il visto bielorusso parte dal 20 giugno. Siamo stanchi dell’Est, della sua polizia, della sua sporcizia e della sua miseria, così, quando arriviamo a Mosca, anziché imboccare la M1, prendiamo la M9 che porta dritta in Europa. L’anello moscovita è trafficatissimo con rallentamenti e code continue. La città è avvolta da una cappa di smog incredibile. Infiliamo la M9 che i segnali stradali indicano come autostrada. E in effetti ci sono sì due corsie per senso di marcia, ma con incroci, semafori e mercatini improvvisati, insomma un’autostrada alla russa. Con nostro disappunto, comunque, termina dopo un’ottantina di chilometri. Fortunatamente il traffico è quasi insistente, come pure le pattuglie di polizia. Rarissimi anche villaggi. Ogni tanto compaiono banchetti che vendono pelli di lupi e orsi. Superata Velikie Luki, ci fermiamo in un parcheggio custodito (le aree di sosta sono veramente scarse in questa zona) poco dopo la cittadina di Novosokol’niki. Cena pessima nel vicino ristorante.

18/06 – Novosokol’niki > Sebež (Rus)/ Zilupe (LV) > Vinius > Trakai – km 524 + 1 ora
Dopo aver aggiustato un pneumatico dell’Hymer presso un simpatico gommista russo che ha un aiutante uzbeko e che stava terminando un lavoro sulla gomma di un azero, ci dirigiamo alla frontiera con la Lettonia. Sul versante russo, superiamo una lunghissima fila di TIR incolonnati a destra e solo tre auto ci precedono all’ingresso. Le cose procedono in fretta poi, d’un tratto, nasce la solita complicazione: non credono che arriviamo dalla Mongolia. Nelle loro teste infatti, l’abitudine al sospetto è tale, che non ritengono possibile l’aver attraversato l’intera Russia privi di registrazione senza che nulla ci sia accaduto. Non si fidano neppure del timbro d’ingresso fatto dai loro colleghi di Kiakta. E così chiedono qualcosa che comprovi che veniamo da laggiù. Restano veramente di sasso quando vengono mostrate loro una ricevuta bancaria di cambio di Krasnojarsk ed una di Bancomat a Irkutsk. Ci registrano loro stessi scrivendo sul retro del foglietto di immigrazione i nomi di tutte le città che abbiamo attraversato. C’è un ultimo timido tentativo circa l’obbligo di registrazione entro tre giorni dall’ingresso in Russia, ma viene subito sventato facendo notare il tipo di visto che abbiamo. Ci lasciano andare con un sorriso molto perplesso. Davanti a noi brilla il cerchio di stelle che segna l’inizio dell’Europa. Siamo a casa. La Lettonia ci accoglie benissimo: strade ben asfaltate, case colorate, erba tagliata, marciapiedi e pulizia ovunque. Sembra di essere in Danimarca, dopo due mesi di Russia. Facciamo una sosta al Santuario cattolico più grande del paese, dove è stato anche Papa Giovanni Paolo; poi attraversiamo Daugavpils che pur non nascondendo l’architettura sovietica è assolutamente vivibile. Un sogno rispetto alle città russe. In breve siamo alla frontiera con la Lituania che superiamo in qualche secondo: e chi si ricorda più dell’interminabili code e della montagna di documenti che si dovevano compilare sino a qualche anno fa? La Lituania è ancora meglio. Strade perfette, marciapiedi colorati, aree di sosta degne della Francia, benzinai moderni, insomma è Europa. Prima di Vilnius, facciamo una sosta al Centro Geografico dell’Europa dove veniamo sorpresi da un acquazzone che ci lascia fradici. Quindi ci dirigiamo verso Trakai ed entriamo nel vecchio e amico camping Slenyje. Cena ottima al ristorante.

19/06 – Trakai > Lazdijai (LT)/Sejny (PL) > Augustow > Varsavia – km 544
Dopo un giretto per Trakai, decidiamo di andare a visitare il Grutas Park di Druskininkzi al confine con la Polonia, prima di rientrare a casa. Ci sembra doveroso dare un’occhiata a questo discusso parco dove un miliardario lituano ha raccolto tutte le statue che il regime comunista aveva disseminato per vie e piazze della Lituania. Il Grutas Park è molto bello, visitatissimo e fissa per sempre un pezzo di storia di quel paese, anche dal punto di vista artistico. Numerose sono le statue di Lenin, fra cui una che lo immortala in una posa insolita, seduto con un’espressione meditabonda; in numero minore sono le statue di Stalin, mentre tantissime sono quelle dei “collaborazionisti” lituani che appoggiarono l’invasione sovietica del dopo guerra. Molto bella e per nulla “pedante” la ricostruzione di un Gulag siberiano, simile a quello dove venne confinato il padre del magnate. Il Gulag è ricostruito in mezzo alla foresta con tanto di capanne di paglia dove vivevano i confinati e di altoparlanti che diffondono musiche d’epoca. La visita al parco ci sembra una degna conclusione del viaggio: qui il passato è consegnato alla Storia, in Russia no. Emblematica è la targa della via Ulitza Lenina: in Lituania si trova già in un museo, poche decine di chilometri più a est, Ulitza Lenina è ancora una delle vie principali del centro città! E che il passato sia stato consegnato alla Storia è definitivamente comprovato alla frontiera di Lazdijai: ormai baracche, code chilometriche e fogli da compilare sono solo un ricordo. In pochi attimi siamo a Sejny in Polonia, a ripercorrere per l’ennesima volta la strada che attraversa la fitta foresta di Augustow. Il fondo è decisamente migliorato rispetto a qualche anno fa, ma la viabilità è ancora lenta: tutta la Polonia è disseminata di strade strette e cantieri. Oltrepassiamo Varsavia e ci fermiamo nel parcheggio di un benzinaio ad una cinquantina di chilometri dalla città, sulla strada per Katowice.

20/06 – Varsavia > Tesin (CZ) > Cadca (SK) > Bratislava > Vienna > Graz – km 727
Ora respiriamo l’aria di casa. Una lunga galoppata ci porta in una bellissima giornata nel cuore dell’Austria. Ci fermiamo un’ottantina di chilometri prima di Graz in un’area di servizio sull’autostrada A2 e, dopo aver cenato al ristorante, salutiamo i compagni veronesi. Noi partiremo molto presto domattina.

21/06 – Graz > Castel d’Aiano – km 710
Partiamo alle 5:45 e, grazie ad una giornata di traffico scarso, alle 13,50 siamo a casa, dopo due mesi di viaggio e 23.304 chilometri percorsi. Cui vanno aggiunti i 2.500 km di jeep e i 1.000 di aereo macinati in Mongolia.


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