VIAGGIO IN TIBET
di
Marco Scattolon
Premessa
La
regione autonoma del Tibet è ufficialmente chiusa
al turismo indipendente e quindi chiunque si rechi in questa
parte della Cina deve aggregarsi ad un tour organizzato
(info)
Il visto turistico per la Cina è facilmente ottenibile
in una settimana rivolgendosi all'ambasciata cinese a Roma.
Il vero problema è il permesso per il Tibet che non
viene abitualmente rilasciato al singolo turista .
In realtà ci sono due modi per entrare in Tibet:
o attraverso il Nepal o via Chengdu in Cina.
In Nepal ci si deve aggregare fino al confine con la Cina
ad un gruppo di almeno 5 persone. Il vantaggio è
il numero di ore di volo ( in tutto dall'Italia circa 10
), ma spesso è necessario aspettare a Kathmandu molti
giorni e a volte il confine tra Cina e Nepal viene chiuso
costringendoti a annullare il viaggio. Da Chengdu è
più facile ottenere il permesso necessario appoggiandosi
ad un'agenzia locale , non ci sono di solito problemi di
accessibilità perché sei già in Cina
e quindi non c'è frontiera da attraversare, ma le
ore di volo dall'Italia diventano circa 18.
Non avendo la possibilità di aspettare giorni a Kathmandu
e data la situazione politica del Nepal abbiamo optato per
Lhasa via Chengdu.
20
Aprile 2002
Aeroporto di Venezia ore 14.45 volo Venezia- Roma.
Alle ore 18.05 con un'ora di ritardo prendiamo il volo Roma
-Pechino. Arriviamo alle 10 (durante il volo, probabilmente
a causa di un collasso, Silvia è svenuta due volte
ma abbiamo proseguito lo stesso; era troppo importante arrivare
a Lhasa). Alle 15.25 prendiamo il volo per Chengdu dove
arriviamo alle 18.00 del 21/04. La scelta di volare con
la CAAC ( Air China ) è praticamente obbligatoria
dato che la tratta interna Pechino- Chengdu diventa carissima
se il volo internazionale collegato viene fatto con un'altra
compagnia aerea. Rispetto ad una decina di anni fa notiamo
però un netto miglioramento del servizio offerto
dalla CAAC che si è guadagnata in passato una pessima
fama ("China Airlines always crash" ).
All'aeroporto ci viene a prendere come d'accordo Ku Ling,
"Il permesso non è ancora pronto, ve lo consegno
domani quando vi accompagno all'aeroporto", ci
dice dopo averci portati in un hotel di Chengdu : non illudiamoci
, non è ancora detto che riusciamo ad arrivare a
Lhasa. Abbiamo conosciuto Ku Ling, che si è interessato
per farci avere tutti i documenti necessari per arrivare
in Tibet tramite il nostro amico indiano Baghwan, e quindi
"A domani allora, se avete bisogno di qualcosa questo
è il mio biglietto da visita
", già
quasi dimenticavamo la mania cinese per le cartine plastificate,
ricambiamo con i nostri biglietti da visita e Ku Ling sorride
soddisfatto e si inchina.
Salutiamo e andiamo in camera accompagnati da 3 persone
, una cameriera, un facchino e una signora che ci apre la
porta. In Cina la manodopera non costa molto e quindi ovunque
c'è un enorme spreco di gente che nella maggior parte
delle volte non ha niente da fare. Gli hotel come il nostro
sono spesso enormi e vuoti: dove alloggiamo noi ci saranno
circa 400 camere di cui solo una decina occupate. Siamo
gli unici occidentali e questo crea un certo scompiglio.
Stanchi dal lungo viaggio ,appena appoggiata la testa sul
cuscino, iniziano le telefonate : ci chiamano dalla hall
e chiedono se possiamo portare giù i passaporti perché
hanno sbagliato a compilare il modulo. Scendiamo e risaliamo
sempre accompagnati "dall'addetta all'apertura della
porta" che salutiamo nuovamente tra sorrisi e inchini.
La scena si ripete per altre 2 volte e quando suona nuovamente
il telefono, e chiedono "Qual è la vostra
nazionalità?" con il terrore di far "perdere
la faccia" e di offendere il personale dell'hotel chiediamo
di aiutarli a compilare il modulo, così possiamo
finalmente dormire. Il far perdere la faccia ad un cinese
rappresenta una delle offese più gravi che si possano
fare : mai mettere in evidenza specie in pubblico gli errori
commessi da qualcuno anche se si è convinti di aver
ragione. Andare su tutte le furie in pubblico e mettere
così in serio imbarazzo la persona che si ha di fronte
provoca un ulteriore irrigidimento. Per ottenere qualcosa
conviene evitare sempre le critiche dirette, reclamando
in tono calmo, evitando gli scontri. In situazioni simili
occorre sorridere e parlare d'altro per un po'.
22
Aprile 2002
La mattina dopo sveglia alle 5.40, il nostro amico puntualissimo
ci aspetta :"Vi ho fatto preparare la colazione
da portare via". Ci da' due scatole che emanano
un odore troppo forte per i nostri nasi occidentali. Arriviamo
all' aeroporto, Ku Ling fa il check in per noi e confabula
con il personale addetto. Alla fine "Ecco le carte
d'imbarco": ormai è fatta, Lhasa è
vicina !! Ci consegna un foglietto scritto in cinese "Questo
è il permesso per il Tibet da dare al signor Ranchine
quando vi viene a prendere". Speriamo bene
22
Aprile 2002
Volo Chengdu - Lhasa, ore 7.20 !! Leggiamo e rileggiamo,
sembrano proprio due validi e regolari biglietti per Lhasa!
Non ci possiamo credere , è tutto così perfetto,
noi che ci aspettavamo giorni di trattative, ritardi, problemi
vari ! In un attimo svanisce la stanchezza accumulata in
16 ore di volo e tutto diventa improvvisamente così
bello : pensiamo ai dubbi, ai preparativi, agli ultimi mesi
trascorsi nell'incertezza di un viaggio pieno di difficoltà,
e invece tutto sembra a posto. Paghiamo la tassa d'imbarco
e veniamo accompagnati gentilmente al gate. L'odore è
insopportabile e così decidiamo di liberarci della
colazione, ma siamo curiosi e apriamo i misteriosi pacchetti
composti da una specie di wurstel rosso fuoco, un pezzo
di carne maleodorante , alcune noccioline e una pera. Presi
da un improvviso appetito tentiamo di mangiare comunque
qualcosa , quando una signora vicino a noi "scatarra"
rumorosamente e ci fa cambiare idea. Come per tutti i paesi
asiatici anche in Cina sputare sembra essere lo sport preferito:
mai passare sotto i finestrini di un autobus, sotto le terrazze
delle case e tutti quei luoghi esposti al "tiro incrociato".
Finalmente saliamo in aereo e dopo un'ora dal finestrino
vediamo l' Himalaya e in lontananza la punta dell'Everest:
"Siamo noi che voliamo bassi o sono i monti che
sono alti??"
Alle 9.20 arriviamo in Tibet
Il cuore ci batte fortissimo,
probabilmente è dovuto all'altitudine.. Non ci pare
vero: siamo arrivati! Camminando per uscire dall'aeroporto
Silvia è tutta emozionata, una sensazione bellissima
e vorrebbe baciare il suolo ma qualcosa la trattiene ( Marco
che la trascina verso l'uscita ).
Ci vengono a prendere tre amici di Ku Ling, un tibetano
e due cinesi: "siete fortunati, ieri hanno annullato
i voli per il maltempo!! Oggi c'è il sole".
Saliamo in macchina e tutto sembra così familiare:
è come se fossimo arrivati a casa, la jeep vecchia
senza ammortizzatori, le strade tutto come i nostri soliti
viaggi e come pensavamo che fosse. Il primo impatto quando
si arriva in un paese asiatico è sempre molto forte
se non si è preparati almeno psicologicamente. Molta
gente che abbiamo conosciuto appena scesa dall'aereo voleva
tornarsene a casa ma se si riesce a superare questi primi
momenti normalmente ci si entusiasma a tal punto da volerci
rimanere più a lungo.
Percorrendo la strada verso Lhasa ammiriamo le molte bandiere
di preghiera, villaggi senza tempo, panorami stupendi. I
Cinesi hanno piantato esili alberi ( fino ai 4000 mt possono
crescere ) , circondandoli uno ad uno con mattoni per proteggerli
dal vento e dal freddo. Ogni giorno devono essere ripetutamente
innaffiati uno ad uno prelevando l'acqua da cisterne. La
strada è stranamente in buone condizioni e qua i
cinesi hanno fatto un buon lavoro, anche se ad essere sinceri
ci da' fastidio perché questo rovina l'immagine che
tutti noi abbiamo di un Tibet selvaggio; personalmente preferiamo
le scomodità perché fanno sembrare tutto più
genuino e più vero, anche se ci rendiamo conto che
è solo egoismo.
Arriviamo in hotel dopo un'ora e mezza di strada; è
un bell'hotel se non fosse così vicino al Potala.
Lo stile cinese con i vetri blu non si addice alla sacralità
del luogo. I nostri amici ci lasciano suggerendoci di stare
in camera, di bere molto e di non esagerare perché
dobbiamo abituarci all'altitudine.
Noi però ci sentiamo bene, fuori c'è il sole
e sarebbe davvero un peccato sprecare tempo inutilmente;
così, dopo 5 minuti decidiamo, nonostante le raccomandazioni,
di uscire ugualmente.
Un'emozione ci assale davanti al Potala, un tempo antica
sede del Dalai Lama e ora trasformata dai cinesi in un gigantesco
palazzone vuoto , praticamente un museo. Eppure i tibetani
continuano a pregare, ad inginocchiarsi e a prostrarsi davanti
a questa sacra e immensa costruzione.
Davanti all'antica residenza del Dalai Lama i cinesi hanno
costruito una piazza: essa contrasta con la sacralità
del luogo e non ha niente a che fare con la cultura e lo
spirito tibetano. Intorno vediamo palazzi e case cinesi.
La sensazione è quella di essere in Cina e non in
Tibet, il senso di disprezzo nei confronti dei cinesi è
alle stelle, non riusciamo ad immaginare come abbiano fatto
a rovinare tutto in questo modo: piazze enormi, piastrelle
a fiori stile bagno, negozi e case cinesi, ma dove è
finito il Tibet?? Poi ripensandoci è sbagliato giudicare
e questa dovrebbe essere la prima regola nei nostri viaggi.
Chissà però come si sarebbe sentita Alexandra
David-Néel di fronte a questo scenario, lei che ha
impiegato tre anni, nascondendosi tra i pellegrini, digiunando
e attraversando a piedi l'Himalaya per giungere nella città
proibita di Lhasa.
Andiamo verso il Barkhor, la zona di Lhasa che si estende
attorno al tempio del Jokhang e rappresenta il cuore tibetano
della città. A parte la solita piazza fatta costruire
dai cinesi davanti all'edificio sacro, il resto del quartiere
è rimasto praticamente e miracolosamente intatto
ed ha saputo resistere alla Rivoluzione Culturale .
La sensazione che si prova di fronte a questa parte di Lhasa
è indescrivibile, è come passare improvvisamente
da Cina a Tibet e da 21° secolo al medioevo.
L'odore forte del burro di yak diventa ormai parte integrante
di te: ti penetra nei vestiti fino alla pelle e non va più
via. Edifici in puro stile tibetano, di mattoni bianchi
con bandiere di preghiera e decorazioni varie si stagliano
all'orizzonte in un elegante groviglio di tetti.
Pellegrini, nomadi , gente di tutti i tipi, si mischiano
insieme per formare quasi una cartolina: sembra proprio
di essere dentro una di quelle immagini da libro illustrato
come in un sogno. Gente che viene da tutto il Tibet e dal
Kham , che ha camminato per giorni, faticando e ha vissuto
condizioni estreme per arrivare fino a qui. Pellegrini che
portano burro da offrire in dono, lampade, un termos per
il te e quel poco che possiedono.
Il Barkhor è il simbolo della fierezza di un popolo
che vuole fermamente resistere e mantenere i propri usi
e costumi a discapito di tutti cambiamenti che qualcuno
vuole imporre loro. Nel Barkhor i tibetani così solari,
felici di quel poco che hanno, in armonia con se stessi
e con il mondo si contrappongono al grigiume del popolo
cinese che, vittima di un processo di modernizzazione troppo
rapido, troppo spesso imita gli occidentali perdendo la
propria identità e le proprie radici. Nel quartiere
tibetano di Lhasa troviamo l'Occidente contrapposto all'Oriente,
il necessario contro il superfluo, la gioia contro l'insoddisfazione.
Due comunità convivono distintamente: da una parte
i cinesi con i loro negozi spesso sfarzosi e una prematura
modernità da esporre, dall'altra i tibetani che già
dal mattino fino sera sgranano rosari camminando senza sosta
tra i nuovi edifici cinesi.
Noi occidentali siamo così abituati al superfluo
che le cose inutili sono diventate necessarie e viviamo
in un continuo stato di bisogno; non ci basta più
quello che abbiamo e vogliamo sempre di più.
La noia e l'insoddisfazione che regolano la nostra vita
sono parole che per i tibetani non hanno senso .
Ci sentiamo sereni e felici quando ci sediamo a guardare
per ore il via vai continuo di pellegrini, un fiume di gente,
suoni e colori. L'occidente ci sembra sempre più
lontano e inutile. Pensiamo alle nostre giornate, al lavoro,
ai discorsi che in fondo non hanno alcun senso. Pensiamo
a quello che staranno trasmettendo in televisione, ai dibattiti
politici e al nostro modo così innaturale e finto
di vivere.
Il concetto di tempo stesso, la fretta, l'ansia della lancetta
dell'orologio che scorre in questo posto perde di significato.
Il Tibet è una dimensione senza spazio e senza tempo.
La gente non ha problemi di orario, non ha fretta, non deve
correre da nessuna parte. Molti di loro vengono dalle zone
più sperdute del Tibet attraverso un viaggio interminabile
e adesso sono qua a testimoniare inconsapevolmente un modo
di vivere. Loro non lo sanno, ma sono ai nostri occhi realmente
meravigliosi e veri.
E pensare che molti di loro non hanno mai visto una macchina
o un telefono. Cerchiamo di immaginare quale possa essere
stato l'impatto con la modernità una volta arrivati
a Lhasa; saranno sicuramente spaventati e curiosi allo stesso
tempo.
Intorno al Jokhang ci sono bancarelle di tutti i tipi che
vendono oggetti sacri come bandiere, rulli di preghiere
e amuleti. Un gruppo di nomadi si avvicina divertito e osserva
la merce esposta: ad un certo punto inizia una lunga trattativa
, per comprare ornamenti colorati di lana per gli yak.
Gli altri viandanti continuano a girare in senso orario
per ore, alcuni fino a sera inchinandosi davanti all'ingresso
del Jokhang, prostrandosi con i piedi legati. Molti monaci
si mischiano alla folla e il Kora continua dall'alba al
tramonto.
Anche noi giriamo molte volte come rapiti da quanto vediamo.
In breve diventiamo motivo di interesse e curiosità:
la gente fa a gara per salutarci e chiamarci. La videocamera
poi è proprio un oggetto irresistibile e siamo travolti
da curiosi e divertiti passanti. Una signora ci afferra
per un braccio sorridendo e urla qualcosa di incomprensibile,
poi ci saluta e fa Okay con la mano.
Intanto i negozianti ci chiamano da ogni direzione "
looky, chaepy, justy looky " e sentiamo le loro voci
da lontano.
In un angolo vediamo uno "studio dentistico" simile
a quelli nepalesi con il disegno di una bocca sorridente.
All'interno dentiere e accessori "take away",
abbiamo fatto proprio bene a farci una visita di controllo
prima di partire!
Per disgrazia ci viene l'idea di entrare in un negozio di
Tangka , dipinti sacri, gestito come tutti i commerci di
un certo rilievo da un cinese che non ci molla più.
Ci fa tutta la descrizione ad uno ad uno dei dipinti e tenta
in tutti i modi di venderci qualcosa. La sua insistenza
è quasi fastidiosa e pensiamo che lui non abbia nessun
diritto di parlare di qualcosa che non gli appartiene dal
punto di vista culturale. E' disgustoso sentire come parla
, le cose che dice che comunque sono in gran parte completamente
sbagliate. Probabilmente molte opere che vende a carissimo
prezzo sono state portate via gratuitamente o per poco a
qualche famiglia tibetana e questo è orribile anche
perché per un tibetano un tangka ha un valore profondamente
religioso e viene tramandato di padre in figlio.
Sfuggiti al negoziante, continuiamo a curiosare tra i vicoli
per qualche ora, decidendo poi di tornare in hotel a causa
di un forte malessere dovuto sicuramente all'altitudine.
Ci fermiamo alla sede dei telefoni, ma rinunciamo quasi
subito a chiamare perché nel giro di qualche secondo
siamo circondati da tibetani curiosi, che si appoggiano
alla cornetta e ridono sentendone il suono. Qualcuno timidamente
azzarda un " U FROM" e gli rispondiamo Italy,
chissà se capiscono ma sorridono felici e anche noi
lo siamo.
Per oggi basta siamo distrutti , il mal di montagna è
diventato insopportabile, è meglio se rientriamo
in hotel.
Dopo il tramonto fa molto freddo, non c'è riscaldamento
e, a causa dell'altitudine, dormire è quasi impossibile,
così passiamo la notte con il piumino addosso e beviamo
molto te.
23
Aprile 2002
La mattina dopo cerchiamo di farci indicare dai cinesi
che gestiscono l'hotel dove dobbiamo andare per la colazione.
Non parlano inglese e così leggendo il frasario mandarino-italiano
esclamiamo " Chi fan ! Mangiare! Food! Breakfast !".
Dopo una serie di tentativi ci capiamo a gesti e ci indicano
il posto. Che fatica! Arriviamo al ristorante che dovrebbe
essere quello giusto e sempre a gesti cerchiamo di far capire
che veniamo dall' hotel. Ci portano la colazione: zuppa
di colla di pesce, aglio e noccioline, te e latte di capra.
Dopo una rapida occhiata al pasto Silvia esclama "Sono
le 8, ho il mal di montagna, mi viene da vomitare, c'è
un odore terribile, forse è meglio rinunciare alla
colazione".. " Non sarebbe educato" replica
Marco " facciamoci coraggio e mangiamo lo stesso ",
impresa per niente facile perché le uniche posate
sono le immancabili bacchette cinesi.
Finito di mangiare e ancora un po' storditi dall'esperienza,
viene a prenderci il nostro amico che ci porta a visitare
il Potala. L'interno del palazzo è molto buio, c'è
qualche neon ma più che altro le stanze vengono illuminate
da qualche lampada al burro di yak che i pellegrini riempiono
con le loro offerte. In realtà non ci sono molti
fedeli rispetto al Jokhang e tutto sembra confermare l'idea
che ci siamo fatti guardando il Potala da fuori: i mobili
e gli arredi sono scarsi e solo una ventina di monaci abita
il palazzo. Dalla terrazza esterna ci appare l'enorme piazza
quasi vuota e la parte cinese della città, costruzioni
fuori luogo che limitano la vista sui monti circostanti.
La sensazione di disgusto ci impedisce di continuare a guardare
e preferiamo rientrare. In un cortile interno alcuni pellegrini
stanno ricamando il grandissimo tangka che verrà
esposto durante il festival il 15 Aprile del calendario
tibetano che è "sfasato" di circa un mese
rispetto al nostro.
Terminata la visita Rachine ci invita a pranzo e non possiamo
rifiutare; sapendo che normalmente gli stranieri non apprezzano
eccessivamente il cibo tibetano ci porta in un ristorante
cinese.
Rachine è molto riservato e di lui non sappiamo praticamente
quasi niente : è benestante , dimostra una cultura
al di sopra della media , è molto educato e parla
l'inglese fluidamente con un leggero accento indiano che
rende la sua parlata perfettamente comprensibile a noi italiani.
E' anche bene introdotto tra i cinesi, ha molte conoscenze
ed è riuscito a farci ottenere i permessi di cui
avevamo bisogno.
Nonostante la nostra curiosità evitiamo di porgli
domande dirette che lo potrebbero mettere in imbarazzo,
quando vorrà ci parlerà di se stesso.
Terminato il pranzo decidiamo di andare al monastero di
Sera e ci facciamo dare un passaggio da un trattore carico
di pellegrini: il tragitto è una lenta agonia, il
rumore è continuo e assordante e la strada , che
in realtà è di pochi chilometri, sempre eterna.
I nostri compagni di avventura scherzano e ridono facendoci
continuamente domande: come al solito siamo al centro dell'attenzione.
Sul trattore siamo in 12 persone schiacciate una alle altre,
noi tre e una famiglia di tibetani che viene dalla parte
nord-occidentale del paese a circa 5000 km da qui. Non sanno
dirci da quanto tempo sono in viaggio, i loro volti sono
sudici e neri, i capelli annodati e sparpagliati, ma non
danno segni di stanchezza, ridono e scherzano. Ci offrono
alcuni dolcetti conservati chissà per quanti giorni
nella tasca esterna del loro sporchissimo e lacero vestito;
contraccambiamo con un pacchetto di chewingum.
Arrivati a destinazione incontriamo un monaco amico di Rachine
che vive nel monastero da qualche anno e che si offre di
accompagnarci nella nostra visita.
I pellegrini portano offerte e doni di vario genere: soldi,
burro di yak e amuleti fatti di tsampa (impasto a base fi
farina di orzo e birro). Nessuno è obbligato e tutti
donano secondo le possibilità e in base a quello
che rappresenta per loro la figura da invocare. In alcuni
casi i monaci vagano per i villaggi elemosinando, condizione
questa ritenuta normale e non avvilente dai tibetani.
Nel cortile esterno al monastero c'è la zona dei
dibattiti dove si radunano ogni pomeriggio i monaci. Alle
15.30 inizia la discussione; i novizi restano seduti per
terra, mentre i maestri a turno avvolgono il rosario attorno
al braccio, applaudono e battono il piede facendo una domanda
che riguarda un argomento religioso. Se la risposta data
dal discepolo è esatta, battono le mani verso l'interno
del palmo, altrimenti verso l'esterno. C'è la possibilità
di balzare poi in avanti ponendo un'altra domanda. In realtà
il chiasso impedisce di capire in modo completo il quesito
che di solito non è comunque spontaneo, ma è
una citazione tratta da qualche testo sacro.
Il dibattito continua così per tutto il pomeriggio
e in questo modo gli allievi imparano quello che poi, dopo
aver superato gli esami di fine anno, costituirà
la base della loro cultura religiosa.
Andiamo poi a visitare le pitture sacre rupestri sulla collina
dietro il monastero. Facciamo fatica a camminare e l'altitudine
ci impedisce di andare velocemente: ci sembra di essere
sulla Luna.
Prima di lasciare il monastero siamo invitati a bere del
te al burro di yak e a mangiare qualcosa nella cucina .
Beviamo per non offendere i nostri ospiti, mentre una grosso
ratto gira indisturbato per la cucina. I buddisti tibetani
non possono uccidere nessun essere vivente, e quindi anche
topi, vermi, scarafaggi, pulci, perché potrebbero
essere la reincarnazione di qualcuno. Al pensiero di un
topo che potrebbe essere passato sopra la ciotola da cui
stiamo bevendo ci fa quasi svenire e l'odore di burro di
yak è diventato insopportabile
Silvia :"Voglio
solo uscire..", Marco continua a fissarla e a maledirla
.:
"Dove mi hai portato?? Non ce la faccio più!".
La risposta è :"Resisti e sorridi!".
Ritornati in città salutiamo Rachine e andiamo a
fare un po' di spesa in un negozio che vende biscottini
cinesi, crackers ed altre cose apparentemente commestibili.
Tra le corsie del supermercato incontriamo altri due italiani,
un medico e una biologa, che lavorano in un centro ricerche
a Shigatse. Ci consigliano cosa comprare: "Fate
attenzione questo sembra zucchero, ma in realtà è
detersivo"; ci raccontano che ormai questo è
diventato il loro modo di vivere, sempre in viaggio da un
centro ricerche e l'altro. "Ogni tanto torniamo
in Italia, ma per poco perché ci sentiamo completamente
fuori posto, stranieri a casa nostra e così appena
possibile ripartiamo".
Diversamente da quello che si può pensare, ci sono
molte persone che decidono di lasciare tutto e andare a
vivere in paesi come il Tibet. "Anche per noi "
rispondiamo "ogni volta è sempre più
difficile ritornare a casa: da un lato capiamo di non potere
rinunciare alle comodità del nostro modo di vivere
e ai legami familiari, dall'altro la pace e la serenità
non hanno prezzo".
Forse è solo una questione di tempo, nel senso che
se ci si ferma più di tre mesi in un paese del genere,
ritornare diventa poi veramente difficile , è come
se si superasse un confine, quello che noi chiamiamo "punto
del non ritorno".
Rientriamo in hotel e mangiamo avidamente i biscottini cinesi
fosforescenti che sanno di dentifricio alla fragola
"
Sono buonissimi! " Dice Marco tutto contento "A
proposito, ieri abbiamo digiunato e non ce ne siamo neanche
resi conto
Dobbiamo stare più attenti, il mal
di montagna non perdona. Da oggi imponiamoci di mangiare
e di bere per forza" Si alza "Vado a chiedere
due bustine di te alla reception, siamo rimasti senza".
Dopo qualche minuto si sentono delle risate fortissime che
arrivano dal corridoio, Silvia esce e vede Marco circondato
da un gruppo di cinesi che ridono "Bustine te, tea
bags, tea.. Cha cha" esclama lui indicando il termos
per l'acqua calda. Gli portano un altro termos "No,
bustine, tea bags" Gli portano altre due
tazzine "No, acqua, water, glu glu, tazza, bustina,
pling pling". Le ragazze ridendo portano un frasario
cinese-inglese con scritto frasi del tipo "avete
camere libere, voglio una camera con bagno". Finalmente
arriva il manager che è evidentemente più
sveglio e capisce che mancano le bustine di te. "La
prossima volta vai tu a chiedere qualcosa" e si
distende sfinito sul letto.
24
Aprile 2002
Partenza ore 8.30. In jeep con Rachine andiamo a visitare
il monastero di Drepung. Al rientro, salutato il nostro
amico, decidiamo di visitare il tempio del Jokhang. All'interno
il flusso di pellegrini è costante, ci sono file
di lampade al burro di yak, nomadi in preghiera e persone
di tutti i tipi. Saliamo sul tetto, anche se non si potrebbe,
e vediamo un gruppo di persone che batte il pavimento per
ore danzando ritmicamente e cantando per compattare il solaio,
la stessa tecnica che viene utilizzata per pavimentare le
strade.
Seguiamo il kora interno del Jokhang per osservare la gente.
Alcuni bambini incuriositi si avvicinano ed iniziano a giocare
con noi.
Terminata la visita ci sediamo nell'orrenda piazza progettata
dai cinesi per riposarci un po'
. Due ragazze si siedono
vicino a noi e con qualche parola d'inglese e molti gesti
cercano di intavolare una conversazione: vogliono sapere
tutto di noi, da dove veniamo, che lavoro facciamo e sono
attratte dalla nostra guida sul Tibet. Gli facciamo vedere
le nostre foto e cerchiamo di farci capire con l'aiuto del
frasario tibetano - italiano.
Sono molto contente di parlare con noi. Ad un certo punto
ci chiedono se possono fare una foto ricordo e chiamano
uno dei fotografi che è in piazza.
Dopo un po' si avvicina un giovane monaco che stranamente
parla correttamente l'inglese; questo ci insospettisce immediatamente
perché dicono che tra i religiosi ci siano alcune
spie che lavorano per il governo cinese per scoprire eventuali
dissidenti e antigovernativi.
Inizia a parlare male dei cinesi, dicendo che torturano
i tibetani, che sono crudeli, che lui li vorrebbe tutti
morti. Il modo così aperto con cui si esprime fa
aumentare i nostri sospetti, anche perché è
raro che un buddista parli male di qualcuno. Per evitare
i guai, facciamo finta di niente dicendo che non sappiamo
nulla di quello di cui parla. Il monaco a questo punto si
alza e va via; notiamo che ha uno zaino militare su una
spalla. Sarà una coincidenza ?
Rientrati in hotel veniamo raggiunti da Rachine che ci porta
da un suo amico cinese per noleggiare la macchina per i
prossimi giorni. Purtroppo i cinesi hanno praticamente il
monopolio sulla gestione delle agenzie e ai tibetani arriva
ben poco del guadagno derivato dal turismo. Ci accoglie
il signor Pin Lu che ci consegna immediatamente il solito
biglietto da visita , ci fa sedere su un divano e ci porta
del te. Ci prepariamo: la trattativa sarà, come sempre
in questi casi, eterna. Marco dice "Ho già
mal di testa al pensiero" ma sappiamo bene che
non ci sono altre strade e che questa è la prassi.
Cercando di anticipare i tempi, Silvia prende la parola
e con convinzione spiega l'itinerario che vogliamo seguire
e, usando un cartina dettagliata, indica il numero di giorni
di noleggio e esattamente cosa vogliamo. Sappiamo che è
perfettamente inutile, ma tentiamo lo stesso. E infatti
il cinese ci ringrazia per la precisione della richiesta,
ma propone, in un inglese fluente, un giro alternativo "Sarebbe
meglio arrivare al confine nepalese e magari al Campo Base
dell'Everest. E' un itinerario più interessante che
tutti richiedono". "Grazie per la proposta
ma non ci interessa, vogliamo andare a Ganden, Namtso Drok
e Tsurphu". Il tempo passa tra tazze di te, sorrisi
reciproci, ringraziamenti ma le posizioni rimangono totalmente
divergenti. "Io non ce la faccio più, un
altro po' e lo prendo a sberle!" dice Marco ormai
sfinito. Resistiamo convinti anche se a causa dell'altitudine
la difficoltà aumenta, il battito accelera e la testa
batte come un tamburo. "Ma sicuramente un trekking
è meglio per voi, vi permette di vedere panorami
che non potete assolutamente perdere!" "Certo,
ma guardi non è quello che cerchiamo, magari un'altra
volta!" Dopo più di un'ora il cinese cede
"Lei e' una donna forte, va bene andrete dove volete
anche se comunque non è l'itinerario migliore per
voi". Tiriamo un sospiro di sollievo
Inizia la trattativa per il prezzo a colpi di te e dolcetti
vari.. Dopo un'altra oretta il cinese sorride ci stringe
la mano, la trattativa si è finalmente conclusa.
"Non andate via , permettetemi di offrirvi la cena".
"Ci mancava anche questa!" dice Marco "Siamo
orgogliosi di accettare" risponde Silvia sorridendo.
Rachine ridacchia contento "Siete bravi, avete vinto
voi! Datemi i passaporti, devo andare al posto di polizia
a chiedere tutti i permessi necessari. Penso che, però,
dovrà venire con noi uno studente cinese".
25
Aprile 2002
Partenza ore 9 per il monastero di Ganden. C'è il
sole, ma questa notte è nevicato e il monastero a
4500mt è circondato da colline innevate. Attraversando
tipici villaggi tibetani si arriva dopo alcune ore al monastero
completamente ricostruito dopo che i soliti cinesi l'avevano
raso al suolo. Veniamo circondati da venditori di burro
di yak e bandiere di preghiera.
Entriamo con i pellegrini in una delle sale del monastero:
il soffitto e le colonne portanti sono piene di drappi e
di decorazioni. I muri sono coperti da magnifici e colorati
tangka e, anche se, come sempre in Tibet, la sala è
molto buia, tutto sembra risplendere in un carnevale di
colori su cui dominano il rosso e il giallo. Ci sono numerose
lampade al burro di yak e statue di vario genere. Siamo
fortunati, è appena iniziato il festival dei tre
giorni. La vista del gruppo di più di cinquanta monaci
in preghiera è emozionante: sono tutti seduti su
stuoie e divani paralleli disposti su diverse altezze a
seconda dell'importanza e del rango a cui appartengono e
in un angolo c'è un sommo Lama che siede su una specie
di trono. Leggono i libri sacri ad alta voce e intonano
canti accompagnati dalle lunghissime trombe tibetane. Alcuni
monaci suonano tamburi mentre i novizi sono seduti per terra
e sono molto concentrati a curare i dettagli della preghiera.
Bevono molto te durante la cerimonia, questo li aiuta ad
andare avanti per giorni. Tutti i monaci hanno sotto i vestiti
la ciotola di legno personale. Il te viene fatto cuocere
in enormi recipienti e poi vengono riempiti i termos o viene
distribuito tenendolo in appositi catini. Durante i raduni
di preghiera l'unico alimento è il te anche se raramente
viene servita della tsampa.
In realtà la maggior parte dei monaci non ha una
grande cultura, né ha alcuna possibilità di
istruirsi in modo completo. Come sempre avviene in tutto
il mondo solo i figli dei ricchi grazie ai doni dei loro
genitori possono realmente accedere al sapere, mentre gli
altri devono accontentarsi di poco. In realtà molti
monaci sono comunque in grado di recitare pagine intere
di testi sacri e di commentarli in modo completo, dimostrando
una grande conoscenza filosofica e religiosa dell'argomento.
Altri invece , forse meno dotati, recitano a memoria senza
capire il significato di quello che dicono ( cosa comunque
molto frequente anche nelle nostre messe in cui vengono
riportate frasi senza senso e strafalcioni vari ).
I novizi sono costretti a dedicarsi ai lavori più
umili, come la pulizia dei contenitori di te, dei bagni
e del monastero.
Un monaco ci benedice colpendo la nostra testa con un bastone
per infonderci il suo potere benefico. Che botta !
Terminata la visita decidiamo di provare a seguire il kora
più facile, anche se camminare a questa quota è
un'operazione realmente ardua e per niente piacevole; il
sentiero non è indicato e ci perdiamo un paio di
volte, ma poi riusciamo a trovare la strada giusta seguendo
i pellegrini .
I tibetani sono convinti che aiutare un viandante sia importante
per accorciare il periodo di tempo che intercorre tra l'abbandono
di un corpo e la rinascita successiva. Tutti si adoperano
per aiutarci e ci continuano a fare domande che non capiamo.
La strada continua tra inchini e sorrisi; il panorama è
stupendo, bandiere di preghiera ovunque, sciarpe e pietre
sacre. In fondo alla valle si vede il fiume sacro Bungamati
che arriva a Kathmandu in Nepal dove gli induisti gettano
le ceneri dopo aver cremato i morti.
I pellegrini camminano velocemente ( o siamo noi ad essere
lenti ?? ) e ci superano facilmente. Riusciamo comunque
a percorrere tutto il kora e dopo una breve sosta in una
cucina del monastero dove ci invitano a bere una tazza di
te, arriviamo in una locanda dove mangiamo la solita tsampa
e qualche dolcetto in allegra compagnia di alcuni curiosi
pellegrini. La videocamera li diverte tantissimo e fanno
a gara per essere ripresi. Ritorniamo a Lhasa in tarda serata.
26
Aprile 2002
Partenza alle ore 9 per il monastero di Tsurphu. La
strada si trasformata in un sentiero appena segnato, ovunque
cime aride e innevate; il silenzio viene interrotto solo
da un fortissimo vento.
Il cinese che ci portiamo dietro forse è una spia
del governo, ma dice di essere uno studente che vuole diventare
una guida in Tibet; ha anche un quadernetto su cui scrive
tutto quello che vede e sembra molto impegnato nello studio.
Non è, però, molto intelligente, non sa una
parola di tibetano e ha un pessimo senso dell'orientamento
e una scarsissima memoria. La strada è talmente dissestata
e piena di buche che è assolutamente impossibile
dormire anche perché prendiamo colpi alla schiena
e alla testa continui. Nonostante questo, lui dorme beatamente,
tanto che sospettiamo che gli abbiamo messo del sonnifero
nel te per liberarsene. Attraversiamo alcuni villaggi: le
tipiche case tibetane assomigliano a fortini in mattoni
bianchi. Di solito sono costruite su due livelli , al piano
terra c'è la stalla, mentre al primo piano, a cui
si accede attraverso una scala, troviamo la cucina, la cappella
e la parte centrale della casa che può avere anche
un cortiletto interno.
Arriviamo al monastero di Tsurphu dove arriviamo dopo ore
di agonia attraverso una strada che sembra un letto di un
torrente in secca, tanto che quasi rimpiangiamo gli yak
che , pensandoci bene, non erano poi così scomodi.
Siamo a circa 4.500 mt, quindi più o meno alla stessa
altitudine degli ultimi giorni, però qui facciamo
fatica a camminare e a respirare. Ogni gradino diventa un
ostacolo quasi insormontabile e dobbiamo fermarci spesso
per prendere fiato. E' da tenere presente che nessuno si
è mai preoccupato seriamente di tracciare una cartina
topografica decente dei rilievi e della posizione delle
principali località del Tibet e quindi, Everest a
parte, ci possono essere anche differenze notevoli. I tibetani
poi non avendo alcun senso della distanza e del tempo certo
non sono di molto aiuto ... Entriamo nel monastero che è
stato completamente ricostruito dopo la Rivoluzione Culturale,
durante la quale era stato raso al suolo.
L'ordine monastico è quello dei "Berretti Neri"
che sono stati duramente perseguitati dalla furia devastatrice
delle Guardie Rosse. Dicono di stare molto attenti perché
il controllo del governo è ancora molto forte e ci
sono spie tra i monaci veri. I Gelupa sono molto ricchi
perché sono sponsorizzati da numerose associazioni
straniere, in particolare americane. All'interno del monastero
ci sono tantissimi doni portati dai vari visitatori.
La 13ma reincarnazione del Karmapa, il Lama depositario
della saggezza dei Berretti Neri, è un ragazzo di
18 anni che viveva fino a poco tempo fa nel monastero e
ora è in India. Quando è arrivato qui aveva
solo 9 anni. Pensiamo che debba essere terribilmente noioso
per un bambino vivere in un posto del genere circondato
solo da adulti.
La giornata di un Lama trascorre tra preghiere, lezioni
di religione e filosofia e appuntamenti con i fedeli. Resta
poco tempo per giocare e per vivere come gli altri bambini
della sua età. Appoggiati su un tavolo ci sono alcune
macchinine regalate da qualche turista.
Per la famiglia da cui proviene la reincarnazione di un
Lama è un grandissimo onore, anche se lasciare un
figlio è comunque molto doloroso. I bambini vengono
riconosciuti, normalmente tra i ceti più poveri,
e devono superare varie prove che testimoniano la vita precedente,
come il riconoscimento di alcuni oggetti personali del Karmapa
defunto e la risposta ad alcuni quesiti.
Tutto questo ci fa venire in mente la Dea Bambina a Kathmandu
in Nepal costretta a rinunciare alla sua infanzia per vivere
fino all'adolescenza rinchiusa in un palazzo. In quel caso
il destino è ancora più crudele perché
la bambina, una volta cresciuta, ritorna al villaggio d'origine
e non trova marito ( unica reale possibilità di sopravvivenza
per una donna nepalese ) perché averla in sposa porta
sfortuna.
Un monaco ci benedice e, in cambio di un'offerta, ci regala
tre fagioli sacri che, se usati nel modo corretto, preservano
dalla fame e dal freddo "Non sono molto convinta,
ma comunque non si sa mai.. Sai com'è: non è
vero ma ci credo !"
Prima di morire, la 12ma reincarnazione del Karmapa morto
nel 1981, aveva scritto un libro in cui è riuscito
a prevedere con assoluta precisione la storia del Tibet
e quello che sarebbe successo negli anni successivi nel
mondo.
In un'urna viene conservato un osso della sua gamba che
per effetto di un miracolo cambia colore "Tipo San
Gennaro!" dice Silvia "Ma devi sempre dire
la tua?" borbotta Marco.
Usciti dal monastero e con i semi in mano andiamo a mangiare
qualcosa nella locanda vicina in compagnia di Rachine e
dei cinesi. Due bambini figli di un pellegrino ci guardano
incuriositi ma rimangono ad una certa distanza; sembrano
affamati e così decidiamo di regalargli il nostro
pasto. Sono felicissimi e il più piccolo, che avrà
circa 3 anni, sta in piedi a fatica con tutto il cibo che
gli abbiamo dato. Si portano via anche i contenitori e le
bottiglie d'acqua vuote. Dopo un po' arriva il papa' e ci
viene a ringraziare e a salutare. Rachine ci offre del te
nepalese "Il te al burro è troppo pesante
per il vostro stomaco a questa altitudine". I nostri
amici ci aspettano al ristorante mentre noi decidiamo di
seguire una parte di kora : Il terreno è molto scosceso,
manca il respiro e non so se riusciremo nell'impresa ma
vogliamo tentare ugualmente. Lungo il torrente alcuni monaci
stanno lavando il bucato e ci chiamano per parlare con noi
e per una foto. Gli regaliamo una penna. Proseguiamo fermandoci
continuamente chiamati da pellegrini e viandanti curiosi.
Ai lati del sentiero ci sono cumuli di pietre sacre di tutte
le dimensioni con iscrizioni di vario genere.
C'è un vento molto forte e yak ovunque. Dopo una
camminata di un paio di ore ( in realtà abbiamo fatto
veramente poca strada ) ritorniamo al monastero.
27
Aprile 2002
Ore 5 partenza per Gyantse. La strada è come al solito
impraticabile e piena di buche e corriamo lungo strapiombi
panoramici ma spaventosi . Il cielo è blu intenso
senza una nuvola , siamo veramente fortunati. Ci fermiamo
per prendere una boccata d'aria e scendiamo dalla jeep senza
piumino: ci travolge un vento fortissimo e gelido e non
riusciamo più a respirare . "La prossima
volta mettetevi la giacca o vi congelate!" dice
ridendo Rachine.
Dopo il passo di Kampala a 5200 mt si presenta ai nostri
occhi uno spettacolo meraviglioso : il lago Yamdrok, il
più grande tra i 4 laghi sacri del Tibet. La sensazione
che si prova è indescrivibile: il silenzio, la bellezza
del panorama, le cime innevate l'acqua di colore azzurro
intenso. Il cielo è veramente vicino, sembra quasi
di toccarlo. All'improvviso una folla di tibetani ci travolge
e siamo costretti velocemente a ritornare con i piedi per
terra.
Anche questo lago è salato e ancora oggi scavando
tra le rocce si trovano conchiglie variopinte e fossili
di vario genere, testimonianza del fatto che una volta il
Tibet era sommerso dalle acque . E pensare che in un luogo
così sacro e pieno di significato i cinesi hanno
deciso di costruire una centrale idroelettrica che potrebbe
in breve prosciugare il lago stesso. Incontriamo un ciclista
che sta facendo Lhasa - Kathmandu in mountain-bike, un itinerario
che mette a dura prova la resistenza fisica e la capacità
di sopportazione umane.
Lungo la strada ci fermiamo in un paese e andiamo a mangiare
in un ristorante cinese i soliti spaghetti fritti con verdure
e te.
Dopo 9 ore di macchina tra polvere, buche, deviazioni varie
dovute ad una serie ponti crollati, finalmente arriviamo
a Gyantse.
Andiamo a visitare il Kumbum , uno dei più famosi
templi del Tibet sud- occidentale. Siamo circondati da cani
che , secondo la credenza tibetana, sono la reincarnazione
dei Lama defunti che non sono riusciti a raggiungere il
Nirvana e quindi sono molto rispettati. Stiamo molto attenti
a mantenere la distanza perché potrebbero essere
rabbiosi e quindi sono potenzialmente pericolosi e comunque,
spelacchiati come sono, non si possono certo considerare
l'immagine della salute.
Sulla cima della rocca, dietro il monastero, si vedono i
resti della fortezza che è stata espugnata dagli
inglesi senza trovare praticamente resistenza da parte dell'esercito
tibetano. Il comandante delle truppe britanniche, colpito
dalla magia dei posti e dal fascino a cui nessuno può
resistere, si è poi ritirato in un monastero dove
è vissuto fino alla morte.
Di nuovo in macchina per Shigatse . Ad un certo punto l'autista
si ferma: scendono, parlano, consultano carte e cartine:
ci siamo persi!! Chiedono indicazioni a varie persone, ma
i tibetani notoriamente non hanno alcun senso della distanza
e quindi continuiamo a girare in tondo tra un campo e l'altro,
riempiendoci di polvere dappertutto . Ad un certo punto
si presenta davanti a noi un ponte pericolante; Rachine
scende per controllarne la tenuta, aggiunge pietre e sassi
per rinforzarlo e passiamo per fortuna indenni !
Lungo la strada incrociamo un camion di pietre sacre che
si è rovesciato nel fiume . Ci fermiamo e ci chiedono
un cacciavite. E' curioso vedere come nei paesi orientali,
dove i mezzi di trasporto sono vecchissimi e mancano totalmente
i pezzi di ricambio, gli autisti si ingegnano per riparare
guasti che dai noi sarebbe considerati non recuperabili.
Così camion e macchine vengono rimesse in funzione
andando contro tutte le leggi della fisica.
In questo caso a cosa serva un cacciavite dal momento che
il camion è capovolto è un mistero, ma sembrano
convinti di quello che fanno. Ripartiamo per poi fermarci
poco dopo perché due camion che viaggiavano in direzioni
opposte si sono incastrati. Dopo un paio d' ore finalmente
riescono a sbloccare i due mezzi e possiamo ripartire ma
veniamo di nuovo fermati, prima da un gregge di pecore che
non si sposta e poi da un tibetano che dice di essere autorizzato
a riscuotere un pedaggio e mostra una serie di carte scritte
in cinese. Inizia una discussione animata e alla fine ripartiamo
senza pagare cercando di evitare varie persone che fanno
l'autostop.
Continuando, la strada che è un letto di un torrente
in secca, finisce e proseguiamo attraverso un cava. Tanto
per cambiare ci perdiamo e ritroviamo il percorso giusto
solo dopo una serie di tentativi. Arriviamo ormai distrutti
in città. E' quasi buio.
28
Aprile 2002
Partenza alle 8. Andiamo subito a visitare il monastero
di Tashilunpo, residenza del Pancen Lama, figura antagonista
del Dalai Lama istruito dai cinesi per contrastarne la popolarità.
E' domenica e i cinesi hanno deciso di chiudere i templi
nei giorni di festa. E' però molto difficile riuscire
a spiegare a decine di pellegrini il concetto di festività:
questi si ammassano disorientati davanti alle porte chiuse
del monastero.
Sono qui da questa mattina e non se ne vanno, così
alla fine i monaci aprono e anche noi possiamo entrare a
visitare la parte principale del complesso religioso.
Un gruppo di nomadi proviene dal Tibet nord occidentale,
da una regione che è a più di 5000 km da qui.
Sono vestiti con pesanti drappi decorati con motivi che
mi ricordano molto la carta da parati. Le donne portano
i figli più piccoli sotto il braccio come se fossero
sacchi di farina e salgono con fatica le scivolose scale
a pioli che accedono al tempio. Anche in Tibet i bambini
sembrano assolutamente sereni e raramente si sentono piangere.
Proseguiamo per Tsetang. Ci fermiamo varie volte lungo la
strada che, anche se viene chiamata " Friendship highway"
, non è esattamente quello che si intende per autostrada
: buche, ponti crollati, strapiombi e tanta paura quando,
nel tentativo di superare un camion , per poco non cadiamo
giù dalla scarpata .
Ad un certo punto ci travolge una tempesta di sabbia e dobbiamo
fermarci perché non vediamo assolutamente più
niente. Dopo più di otto ore arriviamo finalmente
nella tanto agoniata città di Tsetang, all'inizio
della sacra valle dello Yarlung, da cui secondo la tradizione
ha avuto origine la civiltà tibetana.
Per qualche strana ragione, forse perché Tsetang
è considerata luogo di diffusione di idee antirivoluzionarie,
gli stranieri possono visitare la città sono se sono
in possesso di un permesso speciale. I requisiti di cui
si deve essere in possesso per ottenerlo sono come al solito
del tutto soggettivi e non si ha mai la certezza del risultato
finale.
Rachine va con i nostri passaporti al posto di polizia e
torna sfinito dopo due ore. "Mi hanno creato problemi,
ho dovuto compilare una decina di moduli e rispondere a
domande senza senso; vogliono sapere tutto di voi e hanno
chiesto di vedervi. Venite con me".
Al posto di polizia ci attendono tre ufficiali che evidentemente
non hanno niente di meglio da fare e quindi hanno deciso
di usarci come passatempo. Se è vero che i tibetani
non sopportano i cinesi è altrettanto vero che i
cinesi non sono per niente felici di vivere in Tibet lontani
da casa circondati da "selvaggi" e con quel clima
rigido. Uno dei cinesi parla un po' di inglese. Sempre cercando
di sorridere iniziamo a rispondere alle domande evitando
di sembrare il più possibile antirivoluzionari. Ad
un certo punto capiamo che uno dei militari è di
Chengdu e Silvia inizia a parlare della Cina dicendo che
è un paese straordinario e che non sa come facciano
a vivere in Tibet. I cinesi iniziano a sorridere, ci fanno
sedere e ci offrono una tazza di te, chiaro segno di distensione.
L'argomento successivo è il calcio italiano. Inizia
così una conversazione interminabile e alla fine
ci mettono timbri di tutti i tipi e ci consegnano una serie
di fogli scritti in cinese. Ci è andata bene anche
questa volta. Usciti dal posto di polizia decidiamo di andare
un po' in giro e seguendo la cartina arriviamo alla parte
tibetana della città. E' come se ci fosse un confine
invisibile tra le due parti . Le due comunità vivono
completamente separate tra loro . La Tsetang cinese è
costruita in modo ordinato con viali enormi, lastricati
di piastrelle, palazzoni, lampioni e negozi di tutti i tipi.
La parte tibetana ha le fogne a cielo aperto, strade buie,
case di fango, mucche, capre e bandiere di preghiera, queste
ultime appese ai tetti.
Le case sono ammassate in modo disordinato su strade in
terra, ai muri sono attaccati strati di sterco di yak, ovunque
il solito odore di burro e fumo. Eppure mentre nella parte
cinese si coglie solo un grande senso di vuoto e di squallore,
i tibetani sono felici, i bambini giocano allegri, gli anziani
chiacchierano e ti contagiano con la loro voglia di vivere.
Ci divertiamo a esplorare, a girare per i vicoli visitando
i piccoli templi, tentiamo di rispondere alle domande della
gente che ci corre incontro. In breve tutta la città
è in strada a osservarci. Qualcuno grida da in fondo
alla strada "Hallo! Hallo! How are you? Nice to
meet you!" altri ridono, ci parlano in tibetano.
Alcuni ci seguono stando per prudenza ad una certa distanza.
Da lontano si vede un'enorme scritta sul monte dietro a
Tsetang "om mani padme om" o almeno lo
pensiamo perché non abbiamo idea di quello che ci
potrebbe esserci scritto.
Un gruppo di persone , forse un'intera famiglia, sta setacciando
i chicchi d'orzo davanti ad una casa. Sono seduti per terra
e occupano tutta la strada , ridono e cantano felici. Tutti
partecipano lavorando in armonia con gli altri e anche i
bambini e gli anziani aiutano. Ci offrono qualcosa da mangiare
e ci invitano a fermarci con loro, poi ci fanno entrare
in casa e ci fanno vedere come viene tostato l'orzo. Passiamo
un po' di tempo con i nostri ospiti e poi ci congediamo
perché è quasi buio e rischiamo di perderci
per le stradine della città vecchia.
29
Aprile 2002
Partiamo da Tsetang in macchina perché ci hanno
detto che c'è una nuova strada per Samye e quindi
non è necessario usare il traghetto. Chiamarla strada
è eccessivo, sembra più una percorso in mezzo
ad una cava, tra buche, camion che ci fanno quasi cadere
nel fiume e ostacoli vari. Comunque alla fine arriviamo
al monastero insieme ad un autobus di pellegrini.
Visitiamo il luogo sacro e seguiamo il kora che attraversa
templi minori molto interessanti.
Mangiamo nel ristorante del monastero e i proprietari ci
fanno sedere in una sala aperta per l'occasione apposta
per noi unici turisti del momento "Qui starete più
comodi" ci dice Rachine contento "Ordinate
quello che volete, offro io".
Il menu è scritto anche in inglese e finalmente possiamo
mangiare qualcosa di diverso: riso fritto alle verdure con
te nepalese. Ad un certo punto ci portano un piatto pieno
di qualcosa di strano. Rachine commenta: "Sono patatine
fritte, so che a voi occidentali piacciono molto e così
le ho fatte cucinare!" E' stato realmente molto
gentile anche se vedendole tutto sembrano tranne che patate
fritte. Mentre mangiamo contenti arriva una comitiva di
turisti americani stile viaggi di lusso che, dopo aver consultato
il menu e evidentemente schifati dal posto, dicono alla
loro guida che non hanno fame e preferiscono solo bere qualcosa.
Ci viene da ridere pensando che i primi giorni anche noi
eravamo così.
30
Aprile 2002
Ci svegliamo alle 6.30, alle 10 abbiamo l'aereo che
ci porterà a Chengdu. Il nostro viaggio attraverso
questo paese straordinario che è il Tibet ormai è
arrivato al termine.
All'aeroporto internazionale di Gompa, che sembra più
che altro un campo da calcio, Rachine ci saluta e ci regala
le classiche sciarpe di seta tibetane che sono di buon auspicio
per chi viaggia.
Saliamo sull'aereo con la promessa di ritornare il più
presto possibile in questo luogo magico, magari per un pellegrinaggio
al Sacro Monte Kailash..
Arrivati a Chengdu usciamo dall'aeroporto e siamo travolti
dalla solita folla di procacciatori di affari che vogliono
portarti nel loro hotel. "hallo, hallo, cheap, hotel!"
Un attimo di esitazione e sarebbe la fine, l'importante
è la velocità. Anticipare i tempi è
essenziale in questi casi se vuoi avere la meglio e sopravvivere
alle agenzie turistiche. Dalla nostra parte abbiamo una
certa esperienza acquisita in anni di viaggi del genere
e il fatto che noi non veniamo direttamente dall'occidente,
ma dal Tibet.
Altra cosa importante è avere solo il bagaglio a
mano, il che ti rende più agile, più veloce
e ti fa uscire prima degli altri dall'aeroporto. Tiriamo
un sospiro, afferriamo saldamente gli zaini "Pronto?
Via!" e ci buttiamo nella mischia , muovendoci
a zig zag ,evitando gli ostacoli e le persone, camminando
con passo deciso e urlando a chiunque ci rivolga la parola
"No, Thank you!".
Un tizio ci si attacca ad un braccio "Do you need
a room?" ce lo scrolliamo di dosso con decisione
e riusciamo ad uscire miracolosamente illesi dall'aeroporto.
Fuori ci troviamo di fronte ad una serie di autobus straripanti
con scritte in cinese, quale sarà quello giusto?
Mi avvicino ad un militare e dico "Chengdu!"
ci indica un autobus sul marciapiede opposto. Avrà
capito? Chiedo al conducente "Chengdu??" annuisce,
saliamo e speriamo bene. Partiamo, la direzione sembra quella
giusta, una signora ci consegna una serie di volantini pubblicitari
con l'elenco di alcuni hotel, ma a parte il nome in inglese
di alcuni, il resto del biglietto è tutto scritto
in cinese. Scendiamo al capolinea: vediamo l'inconfondibile
statua di Mao che sta al centro della città come
in tutte le città cinesi e quindi siamo sicuri di
essere arrivati.
Ma dove sarà l'hotel? La cartina che abbiamo non
è molto dettagliata e non riusciamo ad orientarci.
Si avvicina un vecchio che ce ne vuole vendere una. Stiamo
per comprarla, ma Marco vede che è tutta scritta
in cinese e quindi non serve a niente. Saliamo su un risciò
contrattando a gesti il prezzo e solo dopo scopriamo che
l'hotel è a due minuti di strada; pazienza!
Entriamo nella hall: è il solito hotel in stile cinese
con 400 stanze e tantissimo personale che non ha niente
da fare. In questi hotel di occidentali non se ne vedono
molti e quando ci avviciniamo alla reception ci osservano
meravigliati. Cerchiamo di fargli capire che abbiamo una
prenotazione fatta dal nostro amico Ku Ling , ma non sanno
una parola d'inglese, né si sforzano in nessun modo
di aiutarci. Ci guardano come se fossimo due scemi. A questo
punto chiediamo se, visto che l'hotel sembra vuoto, hanno
una camera libera indipendentemente dalla prenotazione,
ma continuano a non capire. Non c'è niente da fare
non collaborano. Una scritta in inglese sulla parete ci
fa capire come stanno le cose: siamo finiti in un hotel
statale, ecco perché hanno questo modo di fare! Usciamo
e andiamo a cercare un telefono per chiamare Ku ling , ma
non abbiamo una scheda. Forse l'hotel non è questo,
controlliamo ad una ad una le forme, le linee e i pittogrammi
che indicano il nome. Sembra che la scritta sia identica
a quella che ci ha scritto Rachide sul biglietto.
Da lontano vediamo un'insegna in inglese , è proprio
il nostro hotel! Torniamo dentro convinti ma la scena si
ripete.
Sfiniti entriamo in un ufficio turistico vicino e per fortuna
parlano in inglese. Ci sentiamo sollevati, spieghiamo quello
che è successo e chiediamo di potere fare una telefonata.
Sono veramente gentili e riusciamo a chiamare Ku Ling che
ci dice di tornare in hotel e lui provvederà a sistemare
tutto.
Infatti come per miracolo, appena arrivati ci chiedono i
passaporti e ci consegnano la tessera magnetica. Saliamo
accompagnati dalla solita addetta all'apertura della porta.
Ci stiamo lavando quando irrompe in camera una cameriera
per portarci il termos con il te: si vede che in Cina non
si bussa prima di entrare! Decidiamo di andare a visitare
il tempio taoista di Scintu a 18 km da Chengdu. Prendiamo
un taxi e scandendo le parole e a gesti riusciamo a farci
capire. Arrivati a destinazione seguiamo il flusso di fedeli
e aiutati da alcune persone entriamo nel tempio.
Che differenza rispetto ai monasteri tibetani! I cinesi
hanno la mania di trasformare tutto in un grande parco di
divertimenti, luoghi religiosi compresi. Bancarelle, giardini,
ristoranti. Tutto questo non ha veramente niente a che fare
con la fede!
Anche qui siamo al centro dell'attenzione e ci sono molti
curiosi che ci salutano e ci indicano con il dito. Notiamo
un bambino che, cosa ancora comune in Cina, non indossa
il pannolone, ma ha una fessura sui pantaloni, attraverso
cui espleta le sue funzioni fisiologiche.
Dai vari ristoranti arrivano odori di tutti i tipi la maggior
parte dei quali per noi nauseanti.
Decidiamo di ritornare in hotel, ma come?? Stiamo vagando
per le vie del paese quando un autobus , fa retromarcia
, il controllore scende e urla "Chengdu" , facciamo
finta di niente ma insiste ci afferra per un braccio e ci
carica sul bus. " Ma come fa a sapere dove vogliamo
andare se noi non abbiamo aperto bocca ?", "Scusa,
ma secondo te, dove vuoi che vadano due occidentali sperduti
per le vie di Scintu? E' logico che vogliano andare a Chengdu!"
Ci fanno sedere liberando due posti e a gesti riusciamo
a capire quanti soldi costa il viaggio. E così eccoci
di nuovo in città ,da non crederci! Andiamo a sederci
sui gradini sotto la statua di Mao : i cinesi sono proprio
tanti ! Le strade sono invase da una massa immensa di persone
che corre in tutte le direzioni, si accalca davanti ai negozi,
migliaia di biciclette, tantissimi taxi e bus. Se questi
decidono di trasferirsi in Europa siamo finiti! Adesso iniziamo
a capire la campagna per il controllo delle nascite. Il
risultato di decenni di questo nuovo ordine nazionale è
una società di figli unici viziati ed irresponsabili:
la Cina è diventata la nazione del "2-2-1"
( due nonni, due genitori e un figlio ) in cui non esiste
la parola fratello o sorella, in cui il figlio unico, specialmente
se è maschio, è venerato e amato dai propri
genitori a tal punto che gli si concede tutto. Molti si
chiedono cosa succederà quando tra una decina di
anni il governo e la classe dirigente in Cina sarà
formata da figli unici.
Riusciamo anche a trovare un supermercato dove compriamo
qualcosa di commestibile per la sera. Rientrati in camera
accendiamo la televisione: è come vedere il TG4 di
Emilio Fede a reti unificate! Ci sono 4 canali ma tutti
uguali: le trasmissioni parlano del presidente che, generoso
e giusto , visita una fabbrica, o una scuola accolto da
folle di bambini e di lavoratori in festa o di parate ,
concerti a cui partecipano felici i minatori o gli operai
o i fornai. Tutti sono felici e lavorare per loro è
un vero piacere. Dopo un po' spegniamo presi da un senso
di sconforto tremendo. I telegiornali parlano praticamente
solo della cronaca interna, dei progressi cinesi in tutti
i campi e della felicità del popolo. Le notizie internazionali
sono relegate alla fine e liquidate in cinque minuti. Nel
frattempo decidiamo il programma per la giornata successiva
: andremo a Quinchengchang, la montagna sacra taoista a
70 km a nord di Chengdu.
Disgraziatamente non abbiamo il nome del posto scritto in
cinese e così l'unica cosa che possiamo fare è
tentare di ripetere a voce alta Quinchengchang sperando
che qualcuno ci capisca.
Così, consultando la pronuncia di vocali e consonanti
nel nostro frasario mandarino- italiano, ci alleniamo "Q
come la c ceci", "Ch come sci ma con al
lingua retroflessa" , "Chang, come cia
con tono labiale", sembriamo solo due deficienti.
Il giorno dopo andiamo a fare colazione alle 8.35 ma scopriamo
che al massimo viene servita entro le 8.30 e quindi non
c'è niente da fare, la cameriera si rifiuta di servirci,
questi cinesi ci sono sempre più simpatici! In ogni
caso sarebbe stata immangiabile e quindi non ci siamo persi
niente.
Andiamo alla stazione degli autobus. E' un groviglio di
gente che corre in modo disordinato: qualcuno grida , altri
gesticolano e alcuni addetti con un megafono conducono le
persone nella direzione giusta. C'è una confusione
spaventosa; ci adeguiamo alla situazione e urliamo Quinchengchang,
ma nessuno capisce. Nel giro di cinque minuti si raduna
attorno a noi una folla di persone che cercano di aiutarci
e ripetono con noi Quinchengchang , ma in questo modo riusciamo
a produrre solo un rumore assordante. Anche il tentativo
di mimare la montagna sacra non porta a niente. Stiamo quasi
per rinunciare quando una ragazza ci fa segno di aspettare
e sparisce dietro una porta. Dopo una ventina di minuti
ritorna con un'altra ragazza che indossa una striscia rossa
molto vistosa con scritto qualcosa in cinese. "May
I help you, sirs? What can I do for you?" E' un
angelo mandato da qualcuno per aiutarci! Non ci sembra vero,
le spiegiamo dove vogliamo andare e , dato che ci siamo
, ci facciamo scrivere su un foglietto in cinese tutte le
parole che potrebbero servirci in futuro. E, mentre sta
riempiendo il pezzo di carta di misteriosi e contorti segni,
ci spiega che dobbiamo prendere due autobus. Tentiamo di
avvicinarci alla biglietteria ma a quanto pare i cinesi
non hanno assolutamente il senso della parola coda: quando
cammini per la strada ti devi continuamente inchiodare perché
vanno piano, si fermano e rischi di andare addosso a qualcuno;
quando invece c'è qualcosa da prendere si ammassano
caoticamente pestandoti i piedi e passandoti davanti. Così
ci troviamo circondati da cinesi che urlano, spingono e
non riusciamo ad arrivare allo sportello, l'unico vantaggio
è che sono bassi e quindi riusciamo a respirare perché
siamo più alti di loro. All'improvviso arriva di
nuovo l'angelo con la striscia rossa ( che deve voler dire
qualcosa come "SONO INTELLIGENTE") e, vista la
difficoltà , interviene e urlando prende i biglietti
per noi. Ci accompagna poi al bus e ci affida ad una signora
che ci deve dire quando scendere. L'autobus è pieno
e per farci sedere nel posto migliore un signore scende
e prende quello dopo.
Durante il viaggio tutti bevono enormi quantità di
te che si portano da casa e conservano in appositi vasetti:
sul fondo del recipiente mettono foglie e ogni tanto aggiungono
acqua.
Dal bus piovono sputi e bisogna assolutamente tenere i finestrini
chiusi. La guida è come sempre molto particolare:
il traffico è caotico, taxi che si sfiorano, pedoni
,biciclette formano un groviglio tremendo. Per far prima
il bus esce dalla strada e entra nella pista ciclabile.
Poi fa una bella inversione ad U e si ferma perché
la bigliettaia deve andare a comprare le sigarette. Per
finire il conducente tra un brivido e l'altro , chiede dei
soldi perché per far prima vuole prendere l'autostrada!!
"Sono tutti matti, speriamo di arrivare vivi!"
Per fortuna scendiamo dall'autobus sani e salvi e cerchiamo
di capire dove andare per prendere l'altro. Entriamo in
un'agenzia di viaggi e la commessa capisce qualche parola
in inglese, vede il foglietto magico con il nome del posto
dove vogliamo andare e ci porta alla fermata giusta indicando
al conducente dove farci scendere.
Finalmente arriviamo all montagna sacra ma anche questa
sembra un parco giochi e non ha niente di bello.
Dopo un po' decidiamo di ritornare a Chengdu e con l'aiuto
di una persona con la fascia rossa che non sa l'inglese,
ma è "INTELLIGENTE" , torniamo in città.
Recuperiamo i bagagli e andiamo in aeroporto in taxi perché
non riusciamo a capire qual è la scritta che indica
la fermata dell'autobus. Con il foglietto magico e qualche
gesto riusciamo a farci portare alle partenze internazionali.
04
Maggio 2002
Alle ore 12 abbiamo il volo per Pechino dove arriviamo
dopo 2 ore alle 14.15. Riusciamo anche questa volta a sfuggire
alla folla dei procacciatori di affari e in taxi arriviamo
in hotel. L'insegna in cinese coincide con quella data da
Ku Ling e quindi entriamo. Si ripete la scena di Chengdu.
Per fortuna capiscono un po' di inglese ma non trovano la
prenotazione. Gli diciamo di chiamare Ku Ling ma ci viene
risposto: "long distance call" . Sempre
sorridendo e cercando di stare calmi promettiamo di pagare
la telefonata, ma non si smuovono. Ci sediamo nella hall
fermamente convinti di avere la prenotazione e alla fine
telefonano; ci passano Ku Ling e dopo una decina di minuti
ci danno le chiavi e si scusano: non avevano visto il foglio
sopra il bancone della reception. Iniziamo a pensare che
in Cina questa sia la prassi. Dopo la solita ora passata
a compilare moduli vari e a soddisfare la curiosità
del personale dell'hotel finalmente riusciamo ad andare
in camera.
Dopo poco siamo già in strada e iniziamo la visita
della città che nonostante le sue dimensioni e i
suoi 12 milioni di abitanti è facilissima da visitare.
Ci spostiamo in metropolitana contando le fermate e anche
piedi: le strade sono disposte in modo concentrico rispetto
alla Città Proibita, formando una struttura simile
ad una rete viaria romana.
Sono passati dieci anni da quando siamo stati a Pechino
e la città è completamente cambiata: è
diventata una metropoli moderna con vie trafficate, centri
commerciali e enormi insegne luminose che ricordano molto
New York.
A qualunque ora del giorno e della notte c'è gente
per le strade e non c'è nessun pericolo, la criminalità
è quasi inesistente. In piazza Tienamen ci sono bambini
che giocano felici, aquiloni che volano di fronte al ritratto
di Mao .
C'è sempre una fila interminabile davanti al suo
Mausoleo. I cinesi in vacanza scattano foto con sfondi privi
di qualunque interesse per un occidentale: un palo della
luce, la striscia bianca di una strada o un muro possono
essere per loro soggetti stupendi; cosa ci trovino è
un mistero.
Visitiamo la Città Proibita, il Palazzo d'Estate,
la Grande Muraglia, ma soprattutto è bello girare
per le strade e osservare la gente: vagare per i pochi vicoli
rimasti nella parte vecchia della città con i suoi
ristorantini che offrono cose che da noi sono considerate
immangiabili come cani, gatti, insetti, larve, carne cruda
e scarafaggi.
Rinunciamo a fare colazione in hotel perché ci danno
da mangiare un buonissimo uovo marcio e della zuppa di colla
di pesce. Abbiamo individuato un supermercato dove andiamo
ogni giorno; ormai ci conoscono, siamo praticamente gli
unici clienti e con noi fanno affari d'oro. In realtà
anche a Pechino i prezzi sono bassissimi e la vita costa
pochissimo.
Una mattina ci svegliamo alle 5 e, dopo vari tentativi,
riusciamo a farci portare da un tassista al parco di Tien
Tien ( Tempio del cielo ) dove si radunano ogni giorno i
pechinesi prima di andare al lavoro. Decine di persone formano
spontaneamente gruppi di Tai Chi, ballo, danza, ginnastica
con le spade. Il parco è pieno di gente che canta
, suona la tipica chitarra cinese e si diverte; c'è
anche qualcuno che cammina all'indietro o salta la corda.
Un signore sta scrivendo dei pittogrammi per terra con un
pennello e dell'acqua come inchiostro. Cose che da noi non
sono neanche lontanamente immaginabili.
Purtroppo il nostro viaggio è finito. La mattina
del 11 maggio sveglia alle 5.30, l'aereo parte alle 9.20
ma dobbiamo passare i controlli, farci fare timbri e carte
varie e ci vuole tempo.
Alle 8 attraversiamo il controllo bagagli e ci fermano come
sempre a causa del contenitore delle batterie di riserva
per la videocamera che ha l'aspetto di una vera e propria
bomba: un scatola con fili che fuoriescono e all'interno
un groviglio di cilindri simili a piccoli detonatori. Chiamano
i responsabili della sicurezza e iniziamo con calma e sempre
sorridendo a parlare . Spieghiamo a cosa serve, facciamo
anche una piccola dimostrazione ma per niente. La burocrazia
cinese non ha limiti e quindi la situazione si complica
sempre di più . Alla fine decidiamo di lasciare a
loro la scatola, tanto ormai la vacanza è finita
e non ci serve più.